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La riforma incompiuta del 3+2. L’Università chiede «più Europa»

Bilancio del processo di Bologna 16 anni dopo. Doveva servire a far convergere i sistemi didattici dei diversi Paesi membri ma l’integrazione è compiuta solo a metà

22/09/2014
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Corriere della sera

A sedici anni dalla partenza del Processo di Bologna (in volgare italiano il 3+2) esistono oggi le condizioni per fare un bilancio del risultato. Per non accontentarsi dei giudizi sommari (fallimento) o delle versioni trionfalistiche. L’obiettivo era di far convergere i sistemi didattici universitari degli Stati europei per assicurare validità su tutto il territorio d’Europa a ciascuna laurea conseguita in ogni singolo ateneo e garantire, così, mobilità e occupabilità in un mercato del lavoro comune a tutti i laureati europei. Certamente la grave crisi economica attuale complica l’analisi. Il processo è partito per la determinazione di pochi, fra errori, incomprensioni, resistenze, con un insufficiente coinvolgimento delle leadership accademiche e dell’impegno dei governi nel loro complesso. Esso è stato inoltre caratterizzato dalle velocità di attuazione diverse da Stato e Stato. Difettava la necessaria consapevolezza dei cambiamenti profondi intervenuti e della improrogabile urgenza di affrontarli: globalizzazione dei saperi, dimensioni quantitative della popolazione universitaria, società della conoscenza, integrazione europea, ed altro. Ad oggi solo un gruppo di Stati (segnatamente i soliti nordici ed il nucleo dell’Europa continentale più vicina a Bruxelles) è ormai avanti nell’integrazione. Il resto procede più lentamente.

Crescono i laureati e fra questi gli appartenenti a famiglie senza titoli universitari in casa

Ma veniamo ai dati in nostro possesso: ad esempio gli ultimi rapporti Anvur e Ocse ci documentano che gli immatricolati crescono (dal 10,6% del 2000 al 17,3% del 2006 ed al 22,3% del 2012). Crescono anche i laureati, e fra questi gli appartenenti a famiglie senza titoli universitari in casa (socialmente significativo). Questi dati non sono definitivamente consolidati, mentre potrebbero migliorare ulteriormente se si lavorasse con intelligenza a correggere gli errori e le resistenze. Il processo ha anche favorito l’affermarsi di una sensibilità - nei curricoli - nell’introdurre attività formative per il miglioramento dell’occupabilità. L’Anvur ci dice che ormai la totalità degli atenei organizza stages e tirocini, anche per il dopo laurea, di avviamento al lavoro, di accompagnamento in azienda. Alma Laurea calcola che nel maggio 2014 la partecipazione studentesca al tirocinio è stata del 57%. Il risultato è che migliorano le competenze trasversali, la parziale mobilità internazionale e compaiono i titoli congiunti fra università di diversi Paesi. In alcune università (Bologna, Padova, Camerino ed altre) si è estesa l’innovazione anche al dottorato di ricerca per allargarlo oltre l’attuale limitazione solo accademica, per i dottorati congiunti con altri Paesi, per la collaborazione con le imprese, per il rapporto con le aree di ricerca (ad esempio Trieste).

Il mutuo riconoscimento delle lauree è possibile solo se funzionano il riconoscimento dei sistemi di valutazione e una reciproca fiducia

La situazione non è statica né regressiva, ma certo non soddisfacente. Di fronte alle sfide che incontra l’Europa, il contributo all’integrazione universitaria non può fermarsi qui. Molti aspetti sono ancora «sulla carta», o percepiti come adempimenti burocratici anziché come opportunità di miglioramento della qualità. Credo che si imponga più che mai che gli Stati e i sistemi universitari assumano più energicamente il governo del processo, sollecitando anche l’autonomia degli atenei nella stesso senso. L’impegno, però, non va riaffermato in direzione centripeta, trovando soluzioni nazionali a problemi percepiti come nazionali. Le sfide da affrontare – europee e globali nella loro sostanza – vanno affrontate chiedendo «più Europa», e non il contrario. Ad esempio è improrogabile garantire il riconoscimento dei titoli di mobilità degli studenti, ottenuti in altri Paesi europei, coinvolgendo anche gli Stati. L’enciclopedismo e l’eccesso di disciplinarismo limitano in questi casi la capacità valutativa delle università. Va inoltre tenuto presente che il mutuo riconoscimento delle lauree è possibile solo se funzionano il riconoscimento dei sistemi di valutazione e una reciproca fiducia: solo una forte volontà governativa può però assicurare una efficace collaborazione fra le Agenzie di valutazione e di «assicurazione della qualità». Inoltre è opportuno che in questa fase si favorisca il moltiplicarsi di corsi di studio congiunti. Infine, particolare attenzione va riservata al primo ciclo, triennale, trascurato ed ostacolato da taluni governi o gruppi accademici, mentre è in pieno sviluppo e con successo in altri Paesi. Concludendo, un tale cambiamento non può essere consumato à la carte, trovando costantemente specificità disciplinari, «particolari esigenze», o altre resistenze al cambiamento. Pari durata dei corsi, pari articolazione in tre livelli dei titoli e uniformità di sistema sono punti imprescindibili. Le autonomie giochino il loro ruolo entro un simile quadro, di seria integrazione europea, che ha un acuto bisogno di protagonismo dell’intellighentsia nel suo attuale cruciale momento di sviluppo.


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