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La riforma dell’apprendistato: quali i rischi di effetti negativi (inattesi)?

Il nodo della formazione ha da sempre rappresentato una questione spinosa nell’ambito dei rapporti fra datori di lavoro, organizzazioni sindacali e soggetti pubblici, spesso responsabili dei percorsi formativi ‘esterni’:

16/04/2014
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l'Unità

di Ugo Ascoli, Emmanuele Pavolini

In attesa di altri provvedimenti per ora solo annunciati (fra cui ad esempio la creazione di strumenti di welfare a copertura universale per chi è senza lavoro e senza reddito), l’attuale governo ha ritenuto di dover intervenire con celerità su questioni relative al mercato del lavoro con un decreto legge, il n° 34 del 20 marzo 2014, onde modificare la regolazione di alcune importanti forme di contratto: l’apprendistato (incidendo soprattutto su quello più praticato, ovvero quello ‘professionalizzante’) ed il contratto a tempo determinato. Rispetto a un dibattito politico che si è iniziato a concentrare sul secondo di tali strumenti, riteniamo in questa sede sia importante svolgere una riflessione sui cambiamenti apportati al primo, che ha rappresentato fino ad oggi il contratto su cui maggiormente si sarebbe dovuto teoricamente puntare, qualora si fosse voluto investire sul ‘capitale umano’ dei giovani: l’elemento qualificante di tale strumento è, infatti, quello di dare rilevanza contemporaneamente sia all’inserimento effettivo nel mercato del lavoro che alla formazione durante il periodo iniziale di tale investimento. La nuova normativa proposta dal governo Renzi interviene sul funzionamento di alcuni meccanismi fondanti dell’apprendistato in Italia. Le riflessioni riportate in queste pagine, oltre che a partire dalla letteratura recente sull’argomento, si basano in particolare, da un lato, sull’esperienza di amministratore di uno dei due autori di questo articolo, che è stato per vari anni Assessore regionale al Lavoro, dall’altro sui risultati di una ricerca condotta nell’ultimo biennio all’interno di un progetto di ricerca del MIUR (PRIN) sui temi del welfare, in cui una parte specifica è stata dedicata al funzionamento dell’apprendistato. Accanto ai due autori del presente articolo, hanno avuto un ruolo attivo in questa attività di ricerca Clementina Villani (Università di Roma “La Sapienza” e Comune di Roma), Giustina Orientale Caputo e Sara Corradini (Università di Napoli “Federico II”).

Come quasi tutti i governi dalla seconda metà degli anni novanta ad oggi, anche quello Renzi, tramite il decreto “Poletti”, interviene sul contratto di apprendistato. Nel corso degli ultimi decenni si è ripetutamente intervenuto sui limiti di età per avere accesso a tale strumento: seguendo una direzione di progressivo innalzamento di tale limite nel 1997 si elevò l’età dell’apprendista fino a 24 anni; nel 2003 si portò tale limite fino a 29 anni e si elevò il periodo possibile dell’apprendistato ‘professionalizzante’ a sei anni; nel 2011 venne approvato il Testo Unico che riportava la durata massima a tre anni; nel 2012 si rivedevano gli sgravi contributivi a favore del datore di lavoro (fino al 100% per un impresa con meno di nove addetti). Da un punto di vista degli strumenti per facilitare l’inserimento sul mercato del lavoro dei giovani, il valore e l’importanza del contratto di apprendistato risiedono nell’essere un contratto ‘a causa mista’: la doppia attenzione su inserimento lavorativo e formazione ne costituiscono l’essenza e la forza. La formazione è sostanzialmente distribuita fra ‘formazione professionale in senso stretto’ (on the job) e ‘formazione trasversale’, onde incrementare l’occupabilità dei giovani nel mercato del lavoro, dal momento che non c’è alcun obbligo di assunzione a tempo indeterminato da parte del datore di lavoro. In realtà l’idea di coniugare esperienza in azienda con attività formative, spendibili in un contesto più ampio di mercato del lavoro, si è andata affievolendo nel corso del tempo. Dieci anni fa le ore della ‘formazione trasversale’ erano 120 annue. Si è giunti successivamente a 120 in tre anni. Con il decreto Poletti l’obbligo è stato praticamente azzerato. Per essere più precisi il decreto del marzo 2014 rende facoltativa e non obbligatoria la formazione trasversale. In aggiunta a ciò non si vincola in alcun modo la possibilità da parte imprenditoriale di accendere nuovi contratti di apprendistato: nell’ambito della normativa vigente tale possibilità era collegata in qualche modo all’esito di una parte dei precedenti.

L’esperienza di uno degli scriventi in qualità di amministratore porta ad interpretare il passaggio dall’obbligatorietà alla discrezionalità come il voler venire incontro alle lunghe e reiterate pressioni del mondo imprenditoriale, specialmente delle piccole e medie imprese, interessate soprattutto a mantenere dentro l’apprendistato solo la formazione tecnica di mestiere. Sarà, infatti, molto improbabile che, venuto meno il vincolo obbligatorio, le stesse imprese, che fino ad ora avevano spinto per l’abrogazione della formazione trasversale, decideranno di investirvi. Naturalmente, sarebbe errato descrivere il prima ed il dopo del decreto Poletti come il mondo magnifico prima e la decadenza poi della formazione trasversale.

Il nodo della formazione ha da sempre rappresentato una questione spinosa nell’ambito dei rapporti fra datori di lavoro, organizzazioni sindacali e soggetti pubblici, spesso responsabili dei percorsi formativi ‘esterni’: in nessuna regione italiana si è mai riusciti a mettere in formazione più di un terzo dei giovani in apprendistato e tutte le ricerche hanno mostrato un funzionamento profondamente insoddisfacente per le modalità dei percorsi attivati. Tuttavia erano in molti a pensare che occorresse ridisegnare tale formazione, facendone veramente una leva per migliorare la capacità dei giovani di ricollocarsi efficacemente in un’altra attività lavorativa, dopo la conclusione di un periodo di apprendistato, piuttosto che abdicare nella sostanza all’aspirazione di investire in tale direzione. Contemporaneamente buona parte dei datori di lavoro l’ha sempre considerata come ‘una perdita di tempo’ che riduce il monte ore investito nel lavoro e quindi un costo per l’impresa: il trade-off fra sgravi contributivi e retributivi (rilevanti) per la parte imprenditoriale e necessità di formazione per gli apprendisti è stato spesso posto in secondo piano. Accanto a questo rischio, quindi, di ridisegnare l’istituto di apprendistato in un contratto sempre meno “misto” e sempre più strettamente legato al posto di lavoro specifico in cui il lavoratore viene a trovarsi, alcune altre elaborazioni compiute sulla banca dati dell’Inps che abbiamo svolto per la ricerca PRIN sopra indicata, ci permettono di comprendere meglio come abbia effettivamente funzionato in questi anni tale istituto. Innanzitutto risulta come il numero di lavoratori in apprendistato in Italia sia diminuito fra il 2005 ed il 2011 quasi del 14%, passando da 841.321 a 726.276 (2011), dopo aver raggiunto il picco più elevato (906.677) nel 2007. Il titolo di studio più diffuso fra i giovani apprendisti è il diploma superiore, mentre per quanto riguarda l’inquadramento professionale c’è una netta prevalenza di professioni di tipo operaio per gli uomini e di ruoli di impiegate qualificate nei servizi per le donne. Ben l’83,7% degli apprendisti dichiara di non aver effettuato alcuna attività formativa negli ultimi dodici mesi. In oltre un terzo dei casi il contratto di apprendistato non ha superato i sei mesi e solo nel 31,5% ha superato i due anni.

Nel 2011 la quota dei lavoratori in apprendistato di 15-29 anni si è attestata sul 14,4% del totale degli occupati della stessa fascia di età (mentre nel 2009 ne rappresentava il 15,9%), con grandi differenze fra i due estremi Sud (9,2%) e Centro (18,3%). In oltre quattro quinti dei casi (85,8%) siamo inoltre in presenza nel 2009 di una risoluzione anticipata, prima cioè del termine stabilito: la vasta diffusione di un tale fenomeno non depone a favore di una interpretazione di tali percorsi lavorativi quali modalità in grado di migliorare le doti di formazione e competenza di chi li intraprende. Se poi si considera il totale delle attivazioni di rapporti di lavoro nel 2011, l’apprendistato rappresenta non più del 3% delle attivazioni totali, a fronte di un massiccio utilizzo del contratto a tempo determinato, che ha raggiunto nello stesso anno il 68,2% del totale delle attivazioni. In definitiva ci troviamo in presenza di un contratto di lavoro che: non mantiene le sue caratteristiche di contratto a causa mista (formazione e lavoro) a tutto svantaggio dei lavoratori e delle loro chance di occupabilità al di là della singola esperienza in un’azienda; viene scelto sempre meno dai datori di lavoro; presenta durate spesso (molto) brevi; è utilizzato assai meno nelle regioni meridionali, proprio dove, invece, la disoccupazione giovanile raggiunge i suoi picchi più elevati. Di fronte alla crisi dello strumento così come disegnato fino al marzo 2014, si poteva provare ad intervenire in varie maniere. Non è detto, però, che la scelta di rendere questo contratto ancora più appetibile per i datori di lavoro, rinunciando all’obbligatorietà della formazione ‘esterna’ e rimuovendo ogni ‘paletto’ per l’assunzione di nuovi apprendisti, incrementerà il numero di apprendisti. Potrebbe rischiare, invece, di eliminare ogni forma (tentativo) di ‘investimento sociale’ anche formativo su questi giovani onde aumentarne l’occupabilità. La competizione con il contratto a tempo determinato, in cui, grazie al nuovo decreto, sarà possibile arrivare a otto proroghe fino a 36 mesi senza ‘causalità’ e senza periodi vuoti fra un periodo e l’altro, sarà ‘dura’ e rischierà di aprire una gara ‘al massimo ribasso’. Difficilmente tutto ciò, in assenza di una ripresa della domanda, potrà ridurre significativamente la disoccupazione giovanile. Lo scenario che si apre è chiaramente complesso ed è difficile in questo momento prevederne le traiettorie e gli esiti con una certa sicurezza. Il rischio appare, però che il nuovo apprendistato finisca per affiancarsi alle (false) partite iva ed alle varie forme di lavoro a collaborazione. Se ciò si dovesse verificare, occorrerà domandarsi fino a che punto la maggiore flessibilità si tradurrà in maggiore precarietà.


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