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La Repubblica-Il retroscena

IL RETROSCENA L'allarme per un attentato era scattato nell'estate del 2000 dopo le bombe scoperte alla Cisl di Milano L'omicidio come prova del fuoco per una colonna di nuovi brigatisti Il do...

21/03/2002
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la Repubblica

IL RETROSCENA
L'allarme per un attentato era scattato nell'estate del 2000 dopo le bombe scoperte alla Cisl di Milano
L'omicidio come prova del fuoco per una colonna di nuovi brigatisti
Il dossier dei Servizi sull'arruolamento del Nucleo Proletario

Tutto cominciò con un fallito attentato alla Cisl nell'estate 2000
La prova del fuoco della nuova colonna
GIUSEPPE D'AVANZO
La storia che ha scritto un altro capitolo di morte alle 20.10 di martedì 19 marzo a Bologna può avere un inizio a Milano nell'agosto del 2000 con l'entrata in scena di un uomo dal tormentato passato che chiameremo l'Innominato. L'Innominato è un ex brigatista. Qui non interessa sapere perché si decide a fare il "gran passo". Conta soltanto dire che "il passo" lo fa cominciando a collaborare con gli agenti segreti del Sisde "in maniera fiduciaria", come si dice. Che poi vuol dire che gli 007 gli assicurano l'anonimato. Il suo nome non salterà mai fuori: mai, nemmeno se magistrati dovessero fare la voce grossa. L'intelligence non chiede poi molto all'Innominato. Vuole soltanto che legga i documenti del frammentato arcipelago del terrorismo, magari incrociando quel che legge con quel poco (o molto) che sa.
Diciamo che siamo nell'agosto del 2000. Un mese prima, il 6 luglio, alle 8,15 del mattino, il segretario organizzativo del pensionati Cisl Luciano Fontana scopre sui davanzali delle due finestre della sede sindacale di via Tadino a Milano due fioriere con crisantemi di plastica. Dentro le foriere ci sono due ordigni esplosivi. Bombe fatte in casa, alla buona. Sacchetti di plastica colmi di petrolio con un innesco chimico al cloruro di potassio e un timer. Non è la bomba che preoccupa le barbe finte, ma il documento che la rivendica. Dieci cartelle inviate via e-mail ai quotidiani, stella a cinque punte nel frontespizio, firma Nucleo Proletario Rivoluzionario. Per dirla con Sergio D'Antoni, allora segretario della Cisl, "in quelle pagine c'è, con un linguaggio da addetti ai lavori, un'analisi puntuale, folle ma puntuale. Sono persone evidentemente ben informate sul nostro dibattito, sui rapporti confederali". Il documento contiene un insensato delirio. Si legge: "Il principio di organizzazione sociale che radica il Patto di Milano ha un contenuto proto o post-nazista, che dir si voglia". Cofferati? "Il cane da guardia dei padroni". Chi diavolo sono questi qui e che cosa si preparano a fare?, chiedono gli 007 all'Innominato. L'ex-brigatista si mette al lavoro. Quel che conclude è raccolto nel documento del servizio segreto inviato al Viminale il 10 agosto e, per competenza, alla Procura di Milano.
L'Innominato la racconta così. Le Brigate rosse per il partito comunista combattente (Br/Pcc), radicate nell'area di Roma, responsabili dell'assassinio di Massimo D'Antona (1999) e ideologicamente dipendenti dagli irriducibili in galera per la morte di Roberto Ruffilli (1988), vogliono "estendere il campo di azione ad altri contesti territoriali". D'altronde, che cos'è la rivendicazione dell'omicidio D'Antona se non una chiamata alle armi delle Br/Pcc "ai gruppi clandestini minori"? Si faccia avanti chi ha "l'ambizione di costituire nuove colonne locali" del Partito comunista combattente. Il Nucleo Proletario Rivoluzionario, "che ha una conoscenza non comune delle problematiche trattate, offre l'opportunità alle Br di estendersi alla realtà milanese", una prospettiva che esercita "un'indubbia attrazione in funzione del mito operaista delle grandi città del Nord, tuttora fortemente sentito negli ambienti vetero-brigatisti", scrivono le barbe finte. Il problema, spiega l'Innominato, è che il Nucleo Proletario Rivoluzionario dovrà dimostrare di saperci fare con le pistole. Dunque, conclude l'intelligence, bisogna attendersi un attentato a Milano. L'allarme è molto serio. Ricevuto il rapporto del Sisde, il 10 agosto il ministro dell'Interno Enzo Bianco invia una direttiva con cui "dispone il rafforzamento degli obiettivi sensibili potenzialmente a rischio". Tra gli "obiettivi sensibili" c'è al primo posto l'estensore del "patto per il lavoro" di Milano, Marco Biagi. Il professore, in quell'estate del 2000, comincia a vivere "spaventato" e "blindato" con la scorta, come spiega in un fax al professore Luigi Montuschi.
Non si comprende quel che è accaduto in una tranquilla sera di marzo in via Valdonica, Bologna, se non si racconta la storia a partire da via Tadino, Milano. È questa connessione che oggi impegna investigatori e analisti. Nesso che spiega, a loro avviso, il ritardo della rivendicazione: "Il gruppo minore, il Nucleo Proletario Rivoluzionario, dopo la "prova del fuoco", lo sta discutendo con il gruppo maggiore, le Brigate Rosse per il Partito comunista combattente. Ci vuole tempo. Ma, dopo la telefonata al Sole 24 Ore, ammesso che sia autentica, si può dire che il gruppo minore si è ormai organizzato in colonna armata. Era quello che voleva ottenere con l'agguato di Bologna".
La connessione degli investigatori tra l'assassinio di Biagi e il fallito attentato alla Cisl di Milano sgombra il campo da qualche accaldata strumentalizzazione che oggi agita la scena politica. Non c'è nessun rapporto di causa ed effetto tra il conflitto governo/sindacato sull'articolo 18 e la morte di Marco Biagi, tra la congiuntura politica del momento e la sua tragica fine, per il banalissimo motivo che il disegno terroristico ("attaccare e spezzare l'irregimentazione del proletariato operata dalle politiche e dalle sedi neocorporative/portare l'attacco nei nodi politici generali dello scontro) era già in movimento. Ha solo attraversato oggi questa congiuntura politica (articolo 18/governo di centro-destra/sciopero generale) come ieri ha incrociato un'altra congiuntura politico-sindacale (concertazione/patto sociale/governo di centro-sinistra). È un progetto politico-terroristico che, al di là delle contigenze, colpisce sempre le figure di mediazione razionale dei conflitti sociali e del lavoro. Questa considerazione dovrebbe consigliare a destra (a qualcuno, nella destra) e a sinistra (a qualcuno, nella sinistra) di abbandonare l'armamentario polemico (chi sollecita l'odio?) per comprendere che cosa sta accadendo, e quanto pericoloso sia. Uno sforzo che dovrebbe ispirare anche il ministro dell'Interno, Claudio Scajola, che ieri ha avuto un infelicissimo mercoledì.
Doveva rispondere a due questioni. Perché Marco Biagi non era protetto da una scorta adeguata? Il ministro ha farfugliato qualcosa di burocratico, come gli accadde anche dopo il disastro di Genova: "I prefetti lo hanno deciso". In realtà, è stato il ministro Maroni a chiedere al Viminale a voce e per iscritto che Biagi venisse scortato. Maroni non è un ingenuo. È stato ministro degli Interni. Sa a chi rivolgersi per queste questioni, ammesso che non ne abbia parlato direttamente con lo staff del ministro (se non con il ministro). Perché allora al Viminale si sostiene che la lettera del ministro del Welfare non è mai arrivata?
Secondo infortunio di Scajola. Alle 20.05 dichiara che "dalle prime risultanze l'arma che ha ucciso Biagi è la stessa del delitto D'Antona". Una dichiarazione sorprendente. Accanto al corpo senza vita di Marco Biagi, in via Valdonica a Bologna, sono stati ritrovati quattro bossoli di calibro 9x17. In via Salaria a Roma, accanto al corpo di Massimo D'Antona, non è stato trovato nessun bossolo, il che ha convinto per anni gli investigatori che la pistola che ha ucciso il collaboratore di Bassolino fosse un revolver calibro 38, precisamente una Franchi-Llama calibro 38 special. Recentemente la procura di Roma ha ordinato una nuova perizia sui frammenti di proiettili presenti nel corpo di D'Antona. Ne è venuto fuori un ventaglio di ipotesi. Tra queste, la possibilità che si tratti di una calibro 9x14 (gli assassini ne avrebbero raccolto i bossoli dopo l'omicidio). Come si può affermare con certezza che "l'arma è la stessa" se, a Bologna, ci sono bossoli e, a Roma, non ci sono? L'unica possibilità che siano già stati comparati i frammenti di proiettile trattenuti dai corpi e verificate le "compatibilità" (un'identità probabile, non certa) tra deformazioni all'impatto, peso eccetera. Non c'è stato tempo per un lavoro simile (si tratta di mesi); e, dunque, perché Scajola sceglie l'indicativo categorico per la sua rivelazione, precludendo a se stesso e al Paese la possibilità di veder chiaro quel che sta accadendo? E quel che sta accadendo più fonti lo raccontano così: non c'è un gruppo di disperati "odiatori" che va in giro per l'Italia ad ammazzare giuslavoristi, ma al gruppo di pericolosi folli di Roma se n'è aggiunto un altro che ha dato la sua prova di "adeguatezza militare" a Bologna uccidendo un uomo braccato da due anni e lasciato solo in una sera di marzo indifeso davanti ai suoi assassini.


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