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La protesta che i rettori non vogliono vedere

di Stefano Semplici

02/02/2016
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ROARS

La lettera del presidente della CRUI al Ministro Giannini sulla «questione retributiva della docenza universitaria» non aggiunge nulla a ciò che tutti sanno ed è dunque pienamente condivisibile. Al tempo stesso, tuttavia, essa conferma l’arretramento dei rettori rispetto alla posizione che era stata assunta in modo limpido nell’estate del 2015 e la loro ostinazione nel rifiuto di “vedere” il più ampio orizzonte della protesta che si è allargata nelle nostre università. Per questo l’intervento del presidente Manfredi genera insoddisfazione e amarezza.

La CRUI, che dichiara di conoscere la «sensibilità» del Ministro, ad essa fiduciosamente si affida per sottolineare la necessità e l’urgenza di «avviare le possibili azioni da mettere in campo» per affrontare, «in particolare, la neutralizzazione degli effetti futuri del blocco degli scatti stipendiali». Ma era stata proprio la CRUI, inviando le sue osservazioni sul bando della nuova VQR, ad avvertire l’ANVUR e il Ministero che senza il recupero delle risorse tagliate in questi anni non sarebbe stato possibile «garantire la collaborazione del sistema universitario allo svolgimento del nuovo esercizio VQR 2011-2014». La CRUI ritiene che le briciole sparpagliate nella legge di stabilità abbiano risolto questo problema e che dunque rimanga solo da garantire una qualche soddisfazione ai docenti duramente e ingiustamente colpiti nel loro reddito per riprendere questa marcia verso la terra promessa dell’università senza baroni e fannulloni? Quali sono gli atti attraverso i quali il Ministro, il Governo e il Parlamento hanno dato prova della loro sensibilità nell’affrontare il problema delle risorse per il sistema universitario? La CRUI minacciava nel mese di luglio il blocco della VQR. Oggi si accontenta di chiedere l’avvio di possibili azioni. Siamo passati dalle parole chiare e forti di una protesta concreta e potenzialmente efficace all’appello al senso di giustizia e al buon cuore. Nel frattempo, agli “addetti” si chiede di caricare i prodotti in cambio di qualche promessa e dell’apertura degli immancabili tavoli tecnici. Tanti addetti stanno facendo esattamente quel che i rettori annunciavano. Non sono gli addetti ad essere diventati cattivi. Sono i rettori ad aver cambiato idea.

Insoddisfazione e amarezza nascono anche da una seconda considerazione. Non sappiamo se a questa seguiranno altre lettere. Dispiace, per il momento, dover sottolineare come non ci sia nessuna considerazione da parte dei rettori per la seconda frattura di disagio che si è manifestata in questi mesi nelle università italiane. È vero che il vettore più robusto della protesta è quello legato agli scatti stipendiali, ma i rettori, prima di chiedere alle loro truppe di entrare coraggiosamente nel labirinto di IRIS, codici ERC, Subject Category WOS e Scopus, dovrebbero rispondere con solidi argomenti (naturalmente da sottoporre a rigorosa peer review) e non con un glaciale silenzio a coloro che contestano gli effetti di sistema di questa modalità di valutazione. È chiaro che si tratta di un confronto ancora più difficile di quello con il Governo, perché taglia e ferisce dall’interno il mondo accademico. Tutti i professori sarebbero in fondo contenti di “recuperare” i loro scatti. Solo una parte pensa che i fenomeni denunciati nella petizione stopvqr (https://firmiamo.org/stopvqr/) siano reali, che abbiano nella VQR una delle loro cause principali e che costituiscano un danno di misura tale da giustificare un radicale ripensamento di uno strumento giudicato tanto prezioso per stimolare finalmente efficienza e produttività. È anzi possibile che queste siano le tesi di una trascurabile minoranza. Ma i rettori fanno male ad ignorare coloro che le sostengono a viso aperto. Non sono sabotatori. Non si fermeranno e continueranno a difendere un’idea diversa di università, perché l’alternativa a questa VQR non è la vecchia logica del privilegio e dell’irresponsabilità. I rettori ce la fanno a pensare che una terza via è possibile e che è su questa sfida che si misura la loro capacità di “tenere insieme” le comunità che rappresentano?