FLC CGIL
Contratto Istruzione e ricerca, filo diretto

https://www.flcgil.it/@3938145
Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » "La precarietà? Una condizione logorante, ma l'università è un bel posto in cui lavorare".

"La precarietà? Una condizione logorante, ma l'università è un bel posto in cui lavorare".

La vita da precario di Carlo

11/03/2017
Decrease text size Increase text size
L'Huffington Post

Alessia Biancalana

Una vita fatta di precarietà. Una precarietà professionale ed esistenziale, che si insinua negli ingranaggi minimi della vita quotidiana. Senza concedere mai una tregua. Perché da quello stato di precarietà è spesso troppo difficile scorgere una via di fuga, una qualche uscita di sicurezza da imboccare con tutta la determinazione e la disperazione che anni di studio, fatica e lavoro mal retribuito ti lasciano addosso. Eppure la storia di Carlo Cristiano, classe 1973, ricercatore universitario in ambito umanistico, non è solo una storia sulla precarietà nell’università italiana. No, la storia di questo ricercatore che da giovane è diventato meno giovane nella sua corsa a ostacoli per il conseguimento di un posto fisso nel mondo accademico, è soprattutto una storia d’amore e di speranza. E come tutte le migliori storie d’amore, dopo tanti ostacoli e battute d’arresto, oggi sta vivendo il suo lieto fine. Un lieto fine precario, senza dubbio, ma si tratta pur sempre di un lieto fine.

Perché Carlo Cristiano si sente molto fortunato rispetto a tanti suoi colleghi. “Mi è stata data un’opportunità preziosa e niente affatto scontata”, afferma. Da un anno, infatti, un ricercatore e insegna economia politica al dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa. Non importa se quel posto è a tempo determinato, se quel posto l’ha avuto dopo aver vinto un concorso: per lui quel posto è una possibilità in più che gli è stata concessa, una chance inaspettata che gli permette ogni giorno di guardare al futuro con coraggio e fiducia, di insegnare con passione e di sorridere ai suoi studenti. Questa storia è la storia di chi ama a tal punto la ricerca, l’insegnamento, quell’università italiana tanto bistrattata e umiliata dai continui tagli, da sacrificare tutto, pure se stessi, pur di non rinunciare a ciò che dà senso e gioia alla propria esistenza.

Una laurea in filosofia conseguita nel 2000 all’Università di Pisa e poi un dottorato in storia delle dottrine economiche dal 2001 al 2004, per il quale ottiene una borsa di studio da 840 euro netti al mese per tre anni. Poca roba, meglio di niente: pensa. Scaduta la borsa di studio, si mantiene facendo l’operaio stagionale all’Isola d’Elba, la sua terra d’origine. Il giorno prima di discutere la tesi di dottorato è al lavoro, in un panificio. Prenderà un giorno di ferie per la discussione. Dopo il dottorato, iniziano gli anni più bui e desolanti. Gli anni che passano in un alternarsi di periodi trascorsi all’interno dell’università, grazie ad assegni di ricerca vinti e collaborazioni accademiche di ogni genere, a fasi di desolazione assoluta in cui per sopravvivere fa di tutto. Così, Carlo Cristiano da ricercatore universitario tenta nuove strade: accetta un lavoro come agente assicurativo, si cimenta nella riscossione dei crediti e poi prova anche la carriera di rappresentante di commercio. Esperienze più o meno disastrose in cui si sente sempre un pesce fuor d’acqua.

Anni di incertezze e frustrazione, quelli di Carlo Cristiano. Che conosce anche l’amarezza di vincere un concorso da ricercatore nel 2011, che poi è stato annullato dal Tar per un vizio di forma nella procedura. Una sentenza che si traduce nel suo licenziamento dall’università. Al danno si aggiunge anche la beffa: se quel concorso non fosse stato annullato, oggi Carlo Cristiano sarebbe un ricercatore a tempo indeterminato. Perché allora non era ancora entrata in vigore la riforma dell’università, la cosiddetta legge Gelmini, che sostituisce i ricercatori a tempo indeterminato con i ricercatori a tempo determinato di “tipo A” (contratti di 3 anni, prorogabili di soli 2 anni) e i ricercatori a tempo determinato di “tipo B”. In questo secondo caso si tratta di contratti di 3 anni non rinnovabili, con possibilità di diventare professore associato se entro questi 3 anni il candidato consegue l’abilitazione scientifica nazionale e ottiene una valutazione positiva da parte dell’Ateneo. 
Anni che per fortuna sono alle spalle. Perché oggi Carlo Cristiano è un uomo nuovo, un uomo più sereno e fiducioso verso il futuro.

carlo cristiano huffpost

Quando le scade il contratto da ricercatore?
“Il mio contratto da ricercatore di tipo B scade nel 2019 e non ho ancora l’abilitazione. Il bando è uscito e ho fatto domanda su storia del pensiero economico, che è la materia su cui avevo conseguito il mio dottorato nel 2004, ma per mantenere il posto che ho adesso avrei bisogno di un’abilitazione su economia politica, e per quella ho ritenuto meglio aspettare ancora, sperando di avere più possibilità tra un anno”.

Dopo il suo licenziamento dall’università, a causa del concorso annullato dal Tar, che cosa ha fatto?
“Dall’8 maggio 2013, giorno effettivo del licenziamento, mi sono arrangiato come ho potuto, anche con l’aiuto di alcuni colleghi. Diciamo che trovarsi disoccupato e senza diritto ad alcuna indennità non ha aiutato. Ho fatto il possibile per restare all’interno dell’università, tirando avanti con contratti di didattica o assistenza alla didattica alla Luiss, a Tor Vergata e a Pisa, senza smettere di fare ricerca e pubblicare”.

“Fare il possibile” per tirare avanti: quando ha vissuto per la prima volta questa condizione di precarietà?
“Ho conosciuto prima di tutto la precarietà delle regole, negli anni Novanta, quando ho appreso che per fare l’insegnante nelle scuole, perché quello era il mio sogno iniziale, avrei dovuto frequentare per due anni le SSIS – scuola di specializzazione all’insegnamento secondario – per le quali era previsto l’obbligo di frequenza e non esistevano borse di studio. A quel punto, incoraggiato dal docente con cui mi ero laureato, decisi di tentare un concorso di dottorato, cosa che, tra l’altro, garantiva una borsa”.

Ha mai pensato a rinunciare definitivamente alla carriera accademica?
“Nel 2010, senza nessuna prospettiva di un concorso da ricercatore, mi impegno con tutte le mie forze per cambiare vita. Trovo lavoro come rappresentante commerciale e decido che questa volta deve durare. Nonostante avessi buone opportunità di guadagno e l’azienda fosse soddisfatta di me, ben presto mi accorgo di non farcela moralmente: era un lavoro dignitosissimo - sia chiaro - ma occorreva una buona dose di cinismo verso il prossimo che io proprio non ho. È il periodo più difficile di tutta la mia vita professionale. Mi sembrava di non avere più alternative”.

Cosa l’ha persuasa a tornare all’università?
“La chiamata di una docente di Roma che mi ha coinvolto in un nuovo progetto di ricerca. È l’occasione per ripartire. Rientro in università e nel 2011 esce un concorso da ricercatore per la mia materia, è il concorso che ho vinto e che poi è stato annullato dal Tar”. 

La sua carriera accademica è stata una vera corsa a ostacoli…
“Il vero problema sono le regole che cambiano continuamente, così chi fa una scelta è costretto a mettere in conto che le regole in base alle quali sta compiendo quella scelta, ovvero sta programmando il proprio lavoro, cambieranno. Io non ho mai vissuto in una situazione che non fosse di precarietà: una precarietà di carattere normativo unita alla precarietà esistenziale. Nel 2011 pensavo che fosse finita, ma poi c’è stata la sentenza, e ho dovuto accettarlo”.

Ha mai pensato di andare all’estero?
“Ho fatto qualche tentativo, ma nel mio settore non ci sono grandi opportunità neanche all’estero. È stata proprio la mancanza di alternative la cosa che più mi ha provocato frustrazione. Il biologo, il fisico, è vero che se la passano male, ma almeno qualche chance in più ce l’hanno. Per chi intraprende studi umanistici è tutto più difficile e a ciò si aggiunge un’amara premessa: tutti pensano ‘te la sei cercata perché hai scelto filosofia’. È un’opinione legittima, ma dal punto di vista di chi ha la mia formazione è anche un luogo comune difficile da accettare, oltre che fondamentalmente sbagliato.”

Qual è la sua opinione sull’università italiana? E quanto pesa effettivamente il baronato? 
“Il baronato esiste, ma è davvero assurdo pensare che tutti i docenti ordinari siano baroni; in realtà, l’università è il settore pubblico che ha subìto il maggior numero di tagli negli ultimi anni e sono convinto che sia questo il motivo principale della sua crisi. Riducendo drasticamente i fondi si è creato un forte danno all’università nel suo complesso, e istituzionalizzando il precariato si è dato ancora più potere a chi il potere lo cerca. Il punto è questo: il professore ordinario che cerca di amministrare le poche risorse disponibili con spirito di servizio vedrà frustrati i suoi tentativi di promuovere giovani di valore. Chi gestisce le stesse risorse con spirito meno nobile, barone o no, si troverà di fatto ad avere più potere di prima su ricercatori e assegnisti”.

Consiglierebbe la facoltà di filosofia a un giovane di 18 anni?
“Se avessi oggi diciotto anni non so se rifarei l’università, ma se decidessi di farla un’altra volta sicuramente sceglierei sempre filosofia, o forse storia. E per un motivo molto semplice, è il genere di cose che mi riesce meglio. Anche oggi che mi occupo prevalentemente di economia, trovo del tutto naturale farlo con un approccio da storico delle idee. Per cui, a un diciottenne che ha la vocazione di studiare filosofia direi certamente di provarci. Gli direi inoltre di non farsi condizionare dai luoghi comuni: l’ambiente accademico può essere un gran bel posto in cui lavorare. Ma sentirei anche il dovere di descrivergli lo stato in cui mi trovo da troppi anni: questo avere sempre un piede dentro e uno fuori. Mettiamola così: prendere una laurea umanistica oggi è un rischio, ma è un rischio anche decidere, a 18 anni, per motivi puramente utilitaristici, di occuparsi di qualcosa per cui non si ha nessun vero interesse”.

Un piede dentro e uno fuori. Si ritorna sempre al discorso della precarietà…
“Sì, e noto una cosa. Credo fermamente nel diritto al lavoro, e possibilmente a un lavoro stabile. Ma è difficile continuare a chiamare diritto qualcosa che, nella società in cui si vive, si è scelto di non tutelare. Personalmente non ho mai vissuto il precariato semplicemente come un diritto negato, quanto piuttosto come una condizione logorante di cui tutt’ora mi sento personalmente responsabile: penso che se sono in questa condizione è perché fino ad oggi non sono stato così bravo da riuscire a entrare con entrambi i piedi.”

Prima dell’intervista mi ha descritto con entusiasmo il suo lavoro attuale, definendolo come “un’opportunità preziosa”. 
“Ora mi trovo ad avere una nuova possibilità. Come dicevo, ho un contratto da ricercatore di tipo B su economia politica. Ciò significa poter ambire, con un’abilitazione, ad un posto da professore associato. Peccato solo che, ad oggi, questa abilitazione non ce l’ho, né posso illudermi che sarà facile conseguirne una per uno che proviene dal mio percorso. Sarei un presuntuoso se lo pensassi. Quindi, sì, sono ancora un precario a tutti gli effetti, ma almeno con un buon posto (finché dura)”.