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La piramide universitaria a rischio collasso: troppi precari alla base

Dal 2007 a oggi il numero dei docenti a tempo indeterminato è sceso da 59.500 a 47.500. La precarizzazione dei ricercatori aumenta il potere nelle mani di pochi baroni e taglia fuori dal mondo accademico un’intera generazione di studiosi meritevoli

09/03/2018
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Corriere della sera

di Stefano Semplici *

La struttura del corpo docente degli atenei statali italiani si è profondamente modificata negli ultimi anni e il Focus recentemente pubblicato dall’Ufficio Statistica e Studi del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ci aiuta a capire cosa sta succedendo. Lo studio prende in considerazione il periodo dal 2010 (quando venne approvata la legge Gelmini) al 2016, ma i dati disponibili su «Cerca Università» del Cineca consentono di aggiornare il quadro al 31 dicembre 2017.

Meno «baroni» con più potere

Il primo dato che emerge con chiarezza è che il numero dei professori è rimasto sostanzialmente invariato (scendendo di circa 300 unità su un totale di oltre 31.000), ma è cambiato radicalmente l’equilibrio fra le due fasce nelle quali si distribuiscono: nel 2010 i professori associati erano il 51,7% del totale e questa percentuale è salita oggi al 61,4%. Ci sono, in sostanza, circa 3.000 ordinari in meno e 3.000 associati in più. Si tratta di un risparmio consistente (al quale si deve aggiungere quello derivante dal blocco prolungato degli scatti di anzianità) a parità di servizio reso e qualcuno dirà senz’altro che la forte contrazione del numero degli ordinari è un bene anche perché aiuta a liberare finalmente l’università dai «baroni». In realtà, come è facile comprendere, questa dinamica concentra in poche mani il «potere» che viene abitualmente e forse un po’ frettolosamente attribuito agli ordinari e «blocca» carriere che in molti casi meriterebbero ampiamente di raggiungere il livello apicale. Occorre però spostarsi alla base della «piramide», per usare l’immagine del Focus del Ministero, per leggere tutti gli effetti della riforma e degli interventi realizzati in questi anni con coerenza e determinazione davvero bipartisan dai governi e dalle maggioranze che si sono succeduti alla guida del paese.

Ricercatori con la scadenza

Il numero dei ricercatori, che al 31 dicembre 2010 erano circa 24.500, è diminuito in 7 anni di oltre 5.000 unità, con una ulteriore precisazione. La messa a esaurimento del ruolo di quelli a tempo indeterminato (nel 2010 il 97% del totale) fa sì che la gran parte dei nuovi (e pochi) posti messi a concorso corrisponda, come accade a tanti altri giovani in tutti i settori del mondo del lavoro, a una situazione nella quale diventa davvero arduo immaginare serenità esistenziale e attività di ricerca pensata anche su tempi lunghi e senza l’ossessione della pubblicazione a ogni costo. È la condizione nella quale le persone scivolano facilmente in uno stato di ansia permanente, che è troppo spesso l’anticamera della frustrazione e della rabbia, specie quando arriva il momento in cui il contratto non si rinnova e tutto finisce. I numeri sono inequivocabili. Anche considerando «sistemati» i cosiddetti ricercatori di tipo «b», che dopo tre anni possono contare su un passaggio pressoché automatico fra gli associati grazie a un percorso di tenure track, il numero dei docenti che hanno un posto a tempo indeterminato è sceso in sette anni da oltre 55.000 a meno di 47.500 e il dato è ancora più impressionante se confrontato con quello del 2007, quando i docenti di ruolo erano oltre 59.500: il «taglio», in dieci anni, è pari al 20,6%. In compenso, ci sono adesso oltre 3.000 ricercatori di tipo «a» (a tempo determinato e senza tenure track), che sommati ai fortunati colleghi di tipo «b» corrispondono a poco più della metà dei posti di ricercatore a tempo indeterminato che sono nel frattempo andati perduti e la cui «precarietà» non è sostanzialmente dissimile da quella degli assegnisti di ricerca e delle altre figure meticolosamente elencate nel Focus del Ministero: titolari di contratti per attività di insegnamento, titolari di «contratti d’opera» collegati a programmi di ricerca e infine una pattuglia di «tecnologi a tempo determinato».

Gerontocrazia accademica

Questa situazione dovrebbe essere motivo di serio imbarazzo perfino per i sostenitori del Jobs Act, che rispondono a chi denuncia il deterioramento della «qualità» del lavoro con il miglioramento almeno dei dati sull’occupazione. Per chi aspira alla carriera universitaria non vale neppure questa compensazione: negli atenei statali (diversa è la situazione di quelli non statali) ci sono insieme migliaia di posti in meno e migliaia di precari in più. È significativo e ineccepibile, da questo punto di vista, che il servizio trasmesso qualche giorno fa da una rete televisiva nazionale sulle umilianti condizioni di lavoro e di trattamento economico di tanti giovani si sia aperto parlando dei «contrattisti» universitari. E l’età media dei docenti che ricevono un vero stipendio per insegnare e fare ricerca è un altro sintomo inequivocabile di un declino che in molti settori ha ormai il carattere dell’agonia: 59 anni per gli ordinari e 52 per gli associati. Il che significa, molto semplicemente, che in assenza di un radicale cambiamento di rotta i «buchi» nell’organico si allargheranno rapidamente, le attese di tanti studiosi meritevoli continueranno a essere frustrate e gli studenti (in particolare quelli delle università meridionali, a causa dei criteri seguiti per la distribuzione delle risorse) pagheranno il conto di queste scelte. Nel frattempo, la cabina di comando continua a essere gestita secondo il criterio della competizione a oltranza di tutti contro tutti come garanzia della qualità del sistema, sulla base di classifiche che sono state definite una «roba assurda» da un autorevole Ministro della Repubblica. È davvero originale e ardita la via italiana all’eccellenza.
*docente di Etica sociale a Tor Vergata


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