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La paura e i dibattiti nelle scuole italiane «Prof, adesso colpiranno anche Roma?»

La vignetta blasfema strappata di mano a chi vuole appenderla. Il flashmob per «Charlie»

16/01/2015
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Corriere della sera

Le stragi e la scuola. Come sono stati vissuti e come vengono metabolizzati i tre giorni di terrore in Francia fra i banchi dove studiano, giocano, litigano e crescono insieme bambini e ragazzi italiani e cinesi, romeni e maghrebini, sudamericani e cingalesi? «Quando giovedì scorso sono entrato in classe — racconta Emiliano Sbaraglia, fondatore di Underadio, l’emittente online di Save the Children contro la discriminazione, scrittore e prima ancora insegnante di scuola media a Frascati — ho respirato la loro paura, una paura fortissima. I ragazzi mi hanno quasi aggredito per chiedermi cosa ne pensassi dei fatti del giorno prima. È da settembre, dalla ripresa della scuola, che molti di loro sono convinti che il prossimo attentato sarà a Roma. Colpa dell’Isis, del Califfato islamico in Iraq e in Siria».
Gli eventi della settimana scorsa, racconta Sbaraglia, li hanno confermati nelle loro convinzioni: «Vede che avevamo ragione, prof? Mi hanno detto. Io gli ho spiegato che i due terroristi, i fratelli Kouachi, erano sì di religione musulmana ma nati in Francia, e da lì sono partito per raccontare loro la storia del colonialismo, su su fino alle Crociate e alla fine gli ho detto: mica vorrete tornare indietro di mille anni, no?».
Paura. Secondo Sbaraglia la paura si leggeva anche negli occhi di una sua studentessa irachena. Quando capitano questi fatti, i ragazzi islamici si sentono sempre un po’ chiamati in causa. Colpa anche di iniziative come quella dell’assessore all’Istruzione del Veneto Elena Donazzan (Fratelli d’Italia) che all’indomani del massacro di Charlie Hebdo ha inviato a tutti i presidi della regione una lettera in cui chiedeva loro di adoperarsi affinché i genitori dei bambini musulmani prendessero posizione condannando la strage, perché «se pure non si può dire che tutti gli islamici sono terroristi, è evidente che tutti i terroristi sono islamici». La scrittrice Mariapia Veladiano è uno di quei presidi: dirige l’Istituto di Istruzione Superiore Boscardin. «Da noi si è parlato molto di quello che era successo: i ragazzi dell’artistico in particolare si sono lanciati in una serie di reinterpretazioni del tema della matita e della libertà di espressione — dice —. Io credo che la scuola sia il luogo migliore per lavorare al disinnesco della reattività, che è un residuo animale della nostra anima. La cultura è il maggiore e più potente strumento contro la costruzione della guerra. Per questo la scuola pubblica va tutelata, perché è un presidio della convivenza». Purché si tenga fermo il principio che la libertà di ognuno arriva sin dove comincia quella dell’altro.
Non è andata così, purtroppo, all’istituto tecnico Oriani di Faenza dove un ragazzo, un giovane militante leghista, ha cercato di appendere una vignetta di Charlie in classe e una sua compagna di fede islamica gliel’ha strappata di mano. L’episodio è finito agli onori della cronaca in seguito alla denuncia dell’onorevole Gianluca Pini, segretario romagnolo della Lega, secondo il quale i docenti sarebbero intervenuti consigliando al ragazzo di desistere «per quieto vivere: un fatto lesivo della libertà di parola e di pensiero» — secondo Pini — tanto più in quanto lo studente aveva avuto il permesso dalla presidenza. Sì, ma non per appendere le vignette in classe: solo nei corridoi, che fa una bella differenza.
È andata molto meglio all’Istituto tecnico Zanon di Udine dove, all’indomani dell’attentato a Charlie Hebdo , i ragazzi hanno organizzato un flashmob davanti a scuola alle otto meno dieci: foto di gruppo con i cartelli «Je suis Charlie», poi tutti in classe. Silvia Iob, quarto anno di relazioni internazionali per il marketing, c’era: «Devo dire grazie alle mia rappresentante di classe che mi ha avvisato in tempo». E chi è la tua rappresentante? «Gliela passo subito, è qui vicino a me». «Buongiorno, mi chiamo Zahra, Zahra Bel Ahrache». Zahra vive a Codroipo con mamma (italiana) e papà (marocchino). «Anche se non tutti la pensavamo allo stesso modo sulle vignette — spiega —, quello su cui invece eravamo d’accordo è proprio che la libertà di pensiero va difesa». Ma tu personalmente ti sei sentita un po’ presa in mezzo? «Sì, questi eventi fanno pensare che la religione islamica sia violenta, ma confondere musulmani e terroristi significa darla vinta ai terroristi».
Nel mirino dei terroristi francesi è finita anche la comunità ebraica che nell’assalto al supermercato kosher di Parigi ha perso quattro suoi membri. Il liceo classico Manzoni è, da tempo, un punto di riferimento della comunità milanese. «Da noi — spiega la vice preside Elena Benaglia — non ci sono studenti di origine islamica, colpa del greco… Ma abbiamo una lunga tradizione di dialogo. In questi giorni nelle classi abbiamo lavorato molto su quello che era successo, leggendo e commentando i giornali. E non c’è mai stata l’ombra della confusione fra islamici e terroristi». Anzi. Visto che molti ragazzi del Manzoni fanno parte degli scout — cattolici dell’Agesci, laici del Cngei, ebrei di Hashomer — il liceo sta pensando di contattare anche gli scout musulmani per organizzare un torneo sportivo interconfessionale.
«Certo è incredibile — dice Sbaraglia — che nel Ventunesimo secolo non sia stata ancora introdotta nelle nostre scuole un’ora di storia delle religioni». L’idea è stata rilanciata qualche giorno fa, proprio alla luce delle stragi, da Francesca Campana Comparini, organizzatrice del Festival delle Religioni, con una lettera aperta su corriere.it/scuola . Ma in realtà una proposta analoga, sottoscritta da Paolo Scarpi, presidente del corso di laurea in Scienze delle religioni a Padova, insieme ai colleghi di Roma Tre e della Sapienza, giace già da un paio di mesi sul tavolo del ministero dell’Istruzione. «Nessuno vuol mettere in discussione l’insegnamento della religione cattolica che è frutto di un accordo fra Stati e in quanto tale dipende esclusivamente dalla volontà dei contraenti — spiega Scarpi —. Ma sono convinto che un’ora di storia delle religioni che sappia insegnare a distinguere fra i vari credi potrebbe servire ad aprire le menti al rispetto delle differenze. Non sarebbe poca cosa».
Orsola Riva