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La nostra università ha bisogno di aiuto

Con l'attuale sistema dei concorsi un candidato sgradito non ha chance anche se è un vero studioso

11/06/2019
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Corriere della sera

Walter Lapini

Caro direttore, chi l’avrebbe detto che avrei rimpianto i concorsi universitari di un tempo, tipo quello in cui mi interrogarono su una sola lingua delle due previste perché l’altra (il greco) non la sapevano, o quello in cui mi preferirono un coetaneo che aveva scritto circa 80 volte (sic) meno di me, o quello in cui per non farmi vincere si rifiutarono (sic) di convocare l’orale, sfidando le intemerate del ministero e persino dei tribunali. Certo anche negli anni Novanta e Zero-Zero le commissioni reclutavano in massa raccomandati e cavalli di Caligola, però c’era qualche garanzia in più, primo perché queste commissioni, venute fuori da un complesso sistema di elezione e sorteggio su scala nazionale, non erano sempre disposte a farsi piacere l’enfant du pays; secondo, perché i concorsi di base, di accesso, quelli determinanti, erano fondati sugli scritti; e quando si cerca di valutare a capocchia una cosa che sta nero su bianco c’è il concreto rischio di prendere male le misure e di ritrovarsi a remigare in aria come Wile Coyote sullo strapiombo. E così ogni tanto qualche competitor bravo e ostinato riusciva a trovare il buco nel filo spinato e a intrufolarsi.

Ora invece, con le regole della Gelmini, questo non è più possibile. Sono i dipartimenti che se la cantano e se la suonano. Se io, professore di greco antico, chiedo e ottengo di mettere a bando il posto per un allievo o allieva, magari immeritevole, è il mio dipartimento che ne decide la commissione. Solo che il dipartimento, costituito da colleghi di discipline diverse dalla mia e che di greco nulla sanno, non potrà che chiedere consiglio a me e nominare le persone che dico io, e che io ovviamente sceglierò fra gli amici, i devoti, gli alleati, o fra coloro che mi devono qualcosa o che in qualche modo posso influenzare. E così si va in campo con l’arbitro scelto dalla squadra di casa. E il candidato sgradito, fosse pure Cristo in terra, non ha nessuna chance. Una condizione di parzialità, di vizio di partenza che ogni altro settore della vita civile respingerebbe con sdegno, ma che è invece normale per le università e i dipartimenti, trasformati dalla riforma Berlinguer in città-Stato che rispondono solo a se stesse. Gli scritti sono stati eliminati, e gli orali di nuova generazione si riducono a un quarto d’ora di bla-bla in cui il candidato racconta i suoi viaggi all’estero, le sue benemerenze autocertificate e le sue esperienze non verificabili, nonché i suoi progetti, che nessuno ci dice se e come saranno realizzati, ma che pure sono il pezzo forte della valutazione.

Restano le pubblicazioni, si dirà. Se uno presenta 20 pubblicazioni, e un altro 250, magari migliori, la verità si impone da sola. E infatti è qui che i Wile Coyote di una volta si bruciavano il pelo. Ma si è rimediato anche a questo. I bandi di adesso prevedono un tetto, cioè vietano al candidato, pena l’esclusione, di presentarsi con più di un certo numero di scritti, in genere bassissimo (venti, dieci). Un dispositivo di enorme, spudorata iniquità, fatto apposta per azzerare la distanza fra la produzione ampia e articolata degli studiosi veri e gli stenti scritterelli della segretaria di turno, buttati giù nel tempo che residua dall’occupazione principale che in genere è quella di tenere l’amministrazione del capo e prenotargli voli e alberghi. Non solo: i concorsi danno un punteggio anche alle attività di amministrazione e di governance, cioè trasformano in merito scientifico lo scartoffiare convulso dei travet volontari, avvantaggiando la carriera di chi passa il tempo nelle riunioni e nelle commissioni invece che davanti ai libri. Solo l’errore umano può introdurre un clinamen in questo dispositivo formidabile: quando vince un candidato non voluto, vince perché la commissione si incasina e commette illeciti grossolani tipo dare sei punti quando il massimo è cinque o cose così. Che fanno dinanzi a tutto questo i direttori di dipartimento, i presidi, i rettori? Non fanno un bel niente, anzi collaborano. Le autorità accademiche hanno una sola cosa in testa: il bilancio. E poiché ogni vincitore non previsto e non voluto sottrae risorse alle carriere altrui, la città-Stato si stringe a co(o)rte e se le inventa tutte pur di non affidarsi al caso, ai sorteggi, all’alea dell’imprevisto, e pianifica la fregatura degli outsider in maniera plateale, senza più foglie di fico, con scene alla Guglielmo il Dentone. Esistono persino commissioni on demand, coppie fisse o terne fisse di tagliatori di teste che corrono da un capo all’altro dell’arcipelago Anvur per mettersi al servizio del barone locale, facendosi compensare con qualche invito ai convegni, con qualche presidenza di seduta, con un piatto di trofie; o anche lavorando gratis, per amore dell’arte, o per sentirsi importante, vai a sapere.

Anni 90

Qualche competitor bravo e ostinato riusciva a intrufolarsi. Oggi non sarebbe più possibile

Il grande pubblico nulla sa di tutto questo. Ogni tanto legge sul giornale di professori coinvolti in episodi di malaffare, si indigna per un attimo e poi non ci pensa più, nella persuasione che l’università sia una specie di Hollywood, un mondo a parte, un male necessario che c’è e va sopportato come la grandine, le tasse e le cene dai suoceri. Ma l’immagine dell’università italiana scossa da scandali di sesso, nepotismo e mazzette fa persino comodo, perché occulta la realtà di gran lunga più agghiacciante dell’ingiustizia strutturale, sistemica, da cui non ti puoi difendere in quanto è insita nelle regole stesse; che spesso, poi, sono regole monouso, decise per alzata di mano da dieci o quindici rubagalline, per i quali parole come legale, lecito e legittimo vogliono dire la stessa cosa. Se le porte dell’accademia si spalancassero, la gente non vedrebbe scene da boudoir, con professore arrapato e laureanda discinta come nei filmetti della Fenech, ma bensì l’antro del serial killer, con ossa sparse e organi sotto formalina. E se qualcuno trova grandguignolesca questa immagine, pensi a quanti ingegni, talenti, progetti di vita e vite stesse (Norman Zarcone, Luigi Vecchione) sono state sacrificate sul monumentale catafalco di imbroglio e di violenza su cui il sistema concorsuale italiano è costruito. Se avessimo una bandiera, dovremmo issarla a rovescio, come nel finale della «Valle di Elah». Da soli non usciremo da questo cuore di tenebra. L’università ha bisogno di aiuto. Qualcuno ci aiuti.


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