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La lezione è finita

Paola Mastrocola

13/09/2020
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La Stampa

Abbiamo superato il rischio di non fare le vacanze: ci siamo andati, più o meno a lungo, abbiamo ballato nelle notti estive e volteggiato tra flutti e aperitivi, infine siamo tornati dai nostri perigliosi o sicuri viaggi e… subito abbiamo cominciato a volere che si tornasse a scuola. Normale. Ogni cosa a suo tempo: se è estate che si balli, se è autunno che si torni a scuola. L’immediatezza del desiderio. Lo sguardo lungo non è da noi. Avremmo dovuto mettere in relazione le discoteche con la scuola, l’estate con l’autunno, pensare che le discoteche di oggi avrebbero compromesso la scuola di domani, dire a un ragazzo venticinquenne di rinunciare a ballare per non mettere a rischio gli studi di un dodicenne, di sacrificare il suo piacere presente per il bene futuro di un estraneo. Impensabile. Ci scusate un’idea di dovere sociale. E una capacità a procrastinare, pianificare, far provvista, invece di consumare tutto al momento, divorare la vita nell’attimo che viene. Il presente è tutto, il futuro non è niente: semmai fa paura, e bisogna esorcizzarlo. Con feste e balli.

Comunque sono contenta che si parli di scuola. Dopo mesi (anni?) che era sparita da qualsiasi discorso. Sì, ma come se ne parla? Forse perché vogliamo che i ragazzi imparino tante cose, ricevano una buona preparazione culturale, non perdano pezzi del sapere? Non mi pare di aver sentito mai, nemmeno una sola volta, frasi che avessero vagamente attinenza con la parola “cultura”. Nessuno che deplori, per esempio, l’ora di lezione che diventa di 50 minuti. La scuola è una priorità assoluta per questioni sociali, innanzi tutto. Le famiglie sono perdute, senza la scuola. Come si svolgerebbe la vita, casalinga e lavorativa, con i figli a casa? La scuola è necessaria come luogo fisico dove lasciare i figli alle otto del mattino e riprenderli possibilmente il tardo pomeriggio. E, per i figli, è necessaria per socializzare: anche loro perduti, senza la scuola.

Per queste ragioni era impensabile parlare di un altro eventuale lockdown. L’idea di una richiusura sarebbe un incubo per tutti. Quindi, le scuole riapriranno a qualunque costo. Anche se, in epoca di pandemia, è ovvio che la scuola sia uno dei posti più rischiosi, essendo per definizione il luogo della massima aggregazione (altro che cinema, discoteche o festicciole tra amici!). Il rischio sanitario è palese, così come è palese che non siamo pronti ad affrontarlo. Ma il governo non può che riaprire, e l’opposizione non può che essere d’accordo: la politica non può certo mettersi contro l’intera popolazione. Chiunque fosse oggi al governo si batterebbe per riaprire. E chiunque non saprebbe che pesci pigliare, perché la questione è di per sé irrisolvibile. Quindi? Si riapre. A qualsiasi condizione, banchi o non banchi, distanziamento o no. Che siamo pronti o non lo siamo, riapriremo le scuole.

Cosa vuol dire? Semplice, che andremo allo sbaraglio. In realtà è quel che vogliamo. Siamo noi italiani che manovriamo le sorti di noi italiani. Abbiamo deciso che è meglio rischiare qualche caso (speriamo pochi, speriamo blandi) piuttosto che tenerci i figli ancora a casa, noi nervosi e frustrati senza lavoro o immersi nell’impossibile home working, e loro ammuffiti e sversi di noia incollati ai tablet. Non possiamo permettercelo. Di qui, l’altra formula vincente: Dobbiamo convivere col virus.

Va bene. Ma intanto mi faccio alcune piccole domande (certamente irrilevanti e marginali, visto che mi pare nessuno se le stia facendo): gli insegnanti se la toglieranno o no la mascherina? Metti che i più impauriti, fragili o diversamente eroici non se la vogliano togliere, come riusciranno a far lezione? Va bene ascoltare, gli studenti ascolteranno mascherinati cinque ore al giorno; ma gli insegnanti? Come si fa a parlare per cinque ore con la bocca bendata? S’inventeranno le “lezioni mute”? E interrogare? L’insegnante ascolta con la mascherina, e l’allievo? Risponde con o senza mascherina? E controllare i compiti sui quaderni? I quaderni s’infettano?

Le parole del premier Conte mi appaiono di colpo chiare: «Vogliamo una scuola rinnovata, più moderna, più digitalizzata, più inclusiva». Confesso che non capivo cosa volesse dire rinnovata e moderna (inclusiva, poi… cosa c’entra l’inclusione con il virus?). Ora capisco! Grazie al virus, attueremo finalmente la scuola nuova e moderna: la lezione frontale mascherinata sarà così impraticabile da venir dapprima sostituita con la lezione a distanza e poi a poco a poco, con grande giubilo dei pedagogisti che se lo augurano da decenni, sparirà; spariranno anche gli odiati compiti e le interrogazioni alla cattedra, sostituiti finalmente con test digitalizzati. Spariranno le lavagne e i gessi, i quaderni e i libri. Finalmente, dirà qualcuno, ora avremo un vero e totale “rinnovamento”.

Resterebbe la domanda finale: cosa rimarrà della scuola, se sparirà tutto questo? Non credo che importi. Tanto, era la scuola vecchia, che non vogliamo più. Oggi la scuola sarà semplicemente andare a scuola. Recarsi in un luogo (o più luoghi, disseminati qua e là) chiamato ancora, per temporanea inerzia linguistica, scuola. Tutto il resto diventa davvero irrilevante.


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