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La fuga senza ritorno dei ricercatori italiani

di Paolo Valente

24/09/2012
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l'Unità

Nel dibattito sul tema della perdita di talenti si sostiene spesso che la mobilità dei ricercatori è positiva, poiché permette di arricchire il bagaglio individuale e favorisce la circolazione delle idee: “andate e crescete (professionalmente)”. In effetti è vero che la propensione alla mobilità aumenta con il livello di istruzione e specializzazione: dei 60 milioni di persone che vanno a lavorare all’estero nei paesi OCSE circa un terzo ha una laurea. Se si considerano solo i ricercatori, in media il 40% va a lavorare in un paese diverso da quello in cui è stato educato. Percentuale che sale al 50% se si considerano gli scienziati più citati.

Niente di cui preoccuparsi, dunque? Non proprio. Come spesso capita, per comprendere davvero un fenomeno occorre quantificarlo, misurarlo. E anche se la statistica spesso spaventa, la percentuale più semplice e significativa è la differenza tra ricercatori in entrata (educati in un altro paese), rispetto a quelli in uscita: il bilancio del talento. Ed è questo bilancio, che per l’Italia è in forte perdita, a darci le proporzioni della “fuga”[1]: 3% in ingresso contro il 16.2% in uscita, ovvero un deficit che segna -13%. Le percentuali sono invece in pareggio, come per la Germania, positive – clamorose Svizzera e Svezia, ampiamente oltre il +20%, abbastanza bene Regno Unito (+7.8%) e Francia (+4.1%) – oppure in perdita assai più lieve, come la Spagna circa al -1% (7.3%-8.4%). Per trovare un bilancio nettamente peggiore dell’Italia dobbiamo, infatti, prendere in considerazione l’India, con meno dell’1% di ricercatori stranieri in ingresso contro quasi il 40% in fuga.

da “The Global Brain Trade”[2]

E quanti di questi talenti fanno ritorno, dopo un’esperienza all’estero, nel loro paese? Per l’Italia è presto detto: il programma di rientro intitolato a Rita Levi Montalcini ha consentito il reclutamento di poche centinaia di ricercatori che si trovavano all’estero, in circa un decennio, un recupero di pochi punti percentuali di un esodo che invece è probabilmente superiore ai diecimila ricercatori in uscita.  Nel resto dei paesi nostri concorrenti, almeno la metà dei ricercatori che fanno un’esperienza di lavoro all’estero, poi ritorna e trova una collocazione in patria.

Si stenta a credere a questi numeri, anche perché è molto difficile ottenere dei dati, ma basta pensare che una recente ricerca ha censito quasi ventimila ricercatori italiani negli Stati Uniti, e si stima ce ne siano circa altrettanti in tutta Europa. Una recente indagine tra migliaia di ricercatori “mobili” in Europa ha dato un risultato – almeno per me – per nulla sorprendente: la motivazione principale di chi ha cercato un’esperienza all’estero e la spinta maggiore a non fare ritorno è la mancanza di opportunità. Opportunità di fare il proprio lavoro ai massimi livelli, ma anche opportunità di riconoscimento del proprio valore. Fa riflettere il fatto che, sebbene gli stipendi medi dei ricercatori italiani siano molto inferiori a quelli dei colleghi europei, chi lascia l’Italia molto raramente cita questo fattore. Le cause prime di questo fenomeno, infatti, sono davanti agli occhi di tutti: un investimento in ricerca oramai ridotto all’1% del PIL, una percentuale di ricercatori circa dimezzata rispetto ai principali paesi europei, un sistema accademico e istituzioni di ricerca mortificati da anni di tagli e di blocchi del turnover, un sistema della ricerca privata assai ridotto.

Spesso, anche tra gli addetti ai lavori, serpeggia la rassegnazione e una sorta di malcelato orgoglio per i successi dei talenti italiani all’estero: tutto sommato l’esodo e le fortune dei nostri connazionali fuori dall’Italia testimoniano la qualità – nonostante tutto – del nostro sistema accademico. E invece non si tratta certo di un problema di nazionalismo: negli Stati Uniti si stima che ogni punto percentuale di guadagno nel bilancio in-out dei lavoratori con educazione universitaria o post-universitaria produce un incremento del 15% nella produzione di nuovi brevetti. E una nuova, molto preoccupante tendenza sta emergendo in questi ultimi anni: i nostri giovani – vedendo nel settore ricerca e sviluppo, sia pubblico che privato, un vicolo cieco – oramai scelgono l’estero ancor prima del dottorato di ricerca o di iniziare il lungo precariato universitario. E la percentuale di studenti che sceglie di completare la propria formazione fuori dall’Italia è in crescita vertiginosa. Come sappiamo, sono i più bravi ad essere più propensi alla mobilità. Ma il vero problema è che molti pochi di loro faranno ritorno.

[1] C. Franzoni et al., “Foreign Born Scientists: Mobility Patterns for Sixteen Countries”, https://www.nber.org/papers/w18067.

[2] https://spectrum.ieee.org/at-work/tech-careers/the-global-brain-trade


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