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La formazione che manca ai nostri giovani

Lettera dall'Europa

09/08/2018
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la Repubblica

Natacha Polony

Nessuna canicola sembra riuscire ad attenuare la propensione mediatico-politica all’iperbole.

In Francia il governo prepara dunque un «big bang» della formazione professionale, uno di quei rivolgimenti che, a sentir loro, dovrebbero tener conto del «mondo in piena mutazione», per fare in modo che ciascuno sia «attore» della sua vita professionale. Sì, la ministra del Lavoro infila con brio le perle del gergo manageriale. Eppure ha ragione quando sottolinea che le competenze sono centrali in qualsiasi riflessione sull’occupazione. Le suggeriremmo di discuterne prima con il suo collega della Pubblica istruzione: ha ereditato un sistema, da quarant’anni sapientemente calpestato, che spedisce al liceo un 25% di bambini quasi analfabeti, più molti altri dalle competenze alquanto traballanti.

Ma il problema è più vasto ancora.

L’aria infuocata dell’estate invita alle passeggiate. Che la ministra e l’insieme dei politici francesi ne approfittino dunque per incontrare i cittadini. Un ristoratore di Quercy, per esempio, che gestisce uno di quei gioielli che solo la Francia sa produrre. Il ristorante è pieno.

Ma, ahimè, trovare personale è impossibile, sia in cucina sia in sala.

Lavorare la sera, il weekend...

impensabile. Gli apprendisti arrivano accompagnati dai genitori, che li vengono a riprendere in pieno servizio perché hanno fatto le ore previste.

In tutta la Francia, i racconti sono gli stessi. Gli artigiani fanno la stessa constatazione: troppo spesso si trovano di fronte giovani che non solo non hanno nessuna voglia di lavorare, ma non sanno neppure bene in cosa consista il lavoro.

Le eccezioni — e naturalmente ce ne sono tante — sono accolte con gioia e considerazione. Ma, nella maggior parte dei casi, sono due mondi che si sfiorano senza comprendersi. Con questa amara impressione di battersi per tenere in piedi una società, dei territori, una cultura, un Paese le cui élite predicano il vangelo della modernità, del nomadismo e del virtuale.

Quando la ministra parla di formazione in un «mondo in piena mutazione», non è a loro che pensa. E tuttavia. In Turenna, è un meccanico che racconta come accoglie i suoi apprendisti. «Diresti di essere qui per passione o per vocazione?». La maggior parte risponde: per passione. «Allora hai sbagliato indirizzo», gli risponde lui. «Il mio medico ha la passione delle macchine cui dedica il suo tempo libero. Ma non è il suo mestiere. È la vocazione che vi spingerà a chiedervi dove sia il guasto e a ripararlo a ogni costo». La distinzione è sottile, ma essenziale. In una società che attribuisce valore al piacere individuale, ognuno vuole coltivare la sua passione. La vocazione gode di cattiva stampa. La realizzazione di sé in un’opera, in un mestiere che per la gran parte consiste nel mettersi al servizio di un cliente per offrirgli la qualità migliore possibile, sembra ormai qualcosa di stravagante.

Le leggi non cambieranno nulla, i discorsi degli esperti di comunicazione dell’Eliseo saranno di scarso aiuto di fronte a questo dato di fatto: la grandezza di una nazione è data dalla vocazione dei suoi cittadini. Possiamo riempirci la bocca con l’economia digitale, ma un Paese ha e avrà sempre bisogno di ristoratori, meccanici, idraulici, elettricisti. Artigiani addestrati come si deve, amanti di un lavoro ben fatto, fieri di lavorare anche fuori orario per portare a termine un’opera. Artigiani che pagano tasse e contributi, mentre i colossi del Web vi si sottraggono.

© Le Figaro/ LENA, Leading European Newspaper Alliance Traduzione di Fabio Galimberti


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