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La fine delle Lettere una laurea fuori moda

Le facoltà umanistiche non hanno più appeal: immatricolazioni al minimo e cattedre ridotte all’osso. Non solo in Italia. Anche ad Harvard le aule si svuotano

27/06/2013
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la Repubblica

Maria Novella De Luca

PIÙ che una fuga, un esodo di massa. Anzi di generazione. Addio facoltà umanistiche, non servite più, i giovani disertano le aule di Storia, di Filosofia, di Lettere, per non parlare di Sociologia. Accade negli Stati Uniti, in Francia, in Inghilterra, ma da noi, forse, è anche peggio. Immatricolazioni al minimo e cattedre ridotte all’osso.nella grande disaffezione italiana all’università, figlia dello sconforto e dello scoraggiamento, le facoltà umanistiche vivono la crisi più dura. In 10 anni gli studenti delle “aree umane” sono diminuiti del 26,8%, un abbandono diffuso e capillare, battuto di poco soltanto dalle materie di “area sociale”, dove l’emorragia nel 2013 è stata del 28,7%, nel 2003 gli iscritti erano 135mila, quest’anno soltanto 96mila. Cosa stiamo perdendo? Le nostre radici, il senso dell’esistere, l’identità, la storia, il ragionamento? Adesso sono le grandi università americane a dire che così non va, ad appellarsi agli studenti perché riscoprano i saperi classici.


Ementre in Italia l’unica voce è il silenzio, in Francia è stato lo stesso Hollande a lanciare un progetto governativo, perché i giovani riscoprano quelle facoltà, dalla storia dell’arte all’antropologia, dalla letteratura alle scienze sociali, abbandonate e considerate fabbriche di disoccupati.
Alberto Asor Rosa, critico famoso, ha a lungo insegnato Letteratura italiana all’università La Sapienza di Roma. Dice con amarezza: «Le facoltà umanistiche sono state lasciate in un tragico abbandono dai governi competenti, nel 2003 gli ordinari di Letteratura italiana alla Sapienza erano 12, oggi sono rimasti in due. Come si fa ad appassionare gli studenti verso questi corsi di studio se il messaggio che passa è che si tratta di studi residuali, di un mondo che non c’è più, sui quali non vale la pena di investire?». E la cronaca attuale, aggiunge Asor Rosa, non è altro che la conferma di questo (tragico) scenario. «Se il ministro dei Beni culturali ritiene che i direttori dei musei debbano ruotare ogni tre anni, come professionisti di terz’ordine, perché ci stupiamo se i giovani disertano la storia dell’arte ridotta a puro fenomeno merceologico? ».
La paura di non trovare lavoro spinge verso ambiti tecnici, sanitari, o magari porta a non iscriversi proprio all’università, come sta progressivamente accadendo nel nostro paese, dove dal 2004 le immatricolazioni sono diminuite del 20,6%, all’appello mancano 70mila ragazzi, e non è un buon segnale. Ma oggi sono quelle aule vuote nelle aree umanistiche che cominciano a fare paura. Come se all’improvviso, dopo anni di messaggi contrari, ci fosse la consapevolezza che abbandonare all’oblio la storia dell’uomo, può minare le fondamenta di una società. Ed è quello che da tempo sostiene Martha Nussbaum, filosofa americana e studiosa di civiltà antiche, nel suo ultimo libro: “Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica”. Dove rilancia con forza l’idea di una formazione degli studenti non puramente “utilitaristica”, ma anche “disinteressata”.
Andrea Lenzi, ordinario di Endocrinologia, è presidente del Cun, il Consiglio universitario nazionale, che nel febbraio scorso
con un drammatico documento sulle “emergenze” degli atenei, ha fotografato l’esodo italiano dall’università. «Che l’Italia abbandoni il suo primato nell’insegnamento delle Scienze umane è uno spreco immane. Un paradosso — spiega Lenzi — visto che siamo la culla del mondo antico. Se continua così avremo domani il problema di chi sa leggere un testo latino, o dirigere un archivio o un museo». E ci sono centinaia di manager laureati in filosofia, in psicologia o lettere moderne, aggiunge Lenzi, per cui la crisi delle facoltà umanistiche arriva da due fronti: uno globale, la mancanza di risorse, l’altro di “sistema”. «Bisognerebbe insegnare ai giovani che si possono fare start up o spin off,insomma si può fare impresa anche partendo da una laurea in Storia o in Antropologia culturale. E che i saperi umanistici e scientifici, lo dico da medico, non si escludono, anzi».
Forse. Ma è lo spettro delle lauree parcheggio a terrorizzare le famiglie con figli diciottenni, freschi di maturità. Fino a sacrificarne passioni e desideri. E non soltanto per le “aree umanistiche”. Sono anche “aree sociali”, la gloriosa Sociologia italiana, ad essere attaccate dalla desertificazione degli studenti, con un calo di immatricolazioni del 28,7% superiore a quello delle facoltà umanistiche.
Un processo ineluttabile, almeno per ora, profetizza il decano di tutti i sociologi italiani, Franco Ferrarotti, classe 1926. «Il pensiero tecnico sta vincendo sul pensiero introspettivo e involontario, sarà così per i prossimi 10 anni, fino a che durerà questa crisi. Ma a medio termine, e già se ne vedono i segnali, tornerà l’esigenza di un sapere globale accanto al sapere concreto, che invecchia e diventa obsoleto in fretta. E perdere il rapporto con le origini e la Storia è addirittura pericoloso per la democrazia, ma c’è bisogno di leggere Pericle per poter difendere tutto questo».
Non solo. Per Franco Ferrarotti anche la stessa Sociologia, oggi intesa in senso riduttivo e troppo “economico”, deve riscoprire, per sopravvivere, le proprie radici filosofiche. «Il direttore di una multinazionale con sedi in tutto il mondo, deve conoscere l’antropologia culturale e le origini dei paesi che compongono l’azienda in cui lavora. Altrimenti sarà un cattivo manager. E non basta sapere, soltanto,
l’inglese».
E si ricollega al pensiero di Marta Nussbaum, anche Andrea Cammelli, professore di Statistica a Bologna, ma soprattutto fondatore di “Almalaurea”, la più grande banca dati sull’università italiana. «Non solo abbiamo perso il primato nelle facoltà umanistiche, ma oggi, in quest’area, i laureati americani sono il 28%, i tedeschi il 31%, e gli italiani soltanto il 22,3%. Si è troppo insistito in questi anni sull’inutilità di certe lauree, con il terrore della disoccupazione. Ma oggi — dice Cammelli — ciò che si vede dai dati, è che vince chi l’università la fa bene, seriamente, qualunque facoltà scelga. Anzi le facoltà umanistiche preparano a quel long life learning,
quell’imparare per tutta la vita, che caratterizzerà le professioni del futuro. E dell’umanesimo c’è bisogno, proprio per salvare le democrazie occidentali».
In realtà ciò che preoccupa è la disaffezione verso gli studi. Un rovinoso salto all’indietro, ammonisce Cammelli. «Dietro l’esodo dall’università ci sono i figli delle famiglie più povere, basti pensare che nel nostro paese il 75% dei giovani che conseguono una triennale, sono i primi a portare una laurea in famiglia». E Cammelli conclude con un ricordo. «Carlo Azeglio Ciampi era laureato in Lettere ed è stato presidente della Banca d’Italia». C’è dunque allora un sapere globale che supera, sembra, i corsi di laurea