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La fine della valutazione di Stato: un obiettivo forse possibile

Servono regole semplici e il ripristino di una dignità che è dovuta verso la stragrande maggioranza dei nostri colleghi

06/04/2019
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ROARS

Enrico Grosso

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Giuseppe Valditara, capo dipartimento per la formazione superiore e la ricerca presso il MIUR, ha inviato ai rettori un documento per la riforma del sistema di valutazione. Il documento ha una contraddizione latente. Da un lato riconosce il fallimento di ANVUR e l’iper-regolamentazione che sta letteralmente strozzando gli atenei, dall’altro non individua una soluzione efficace poiché ritorna sul punto della valutazione (dei prodotti o chissà cos’altro) indicando in questa dimensione l’unica strada possibile per il governo dell’università. Si tratta di una riproposizione o, se vogliamo, di una lettura autenticadella sfortunata impostazione che ha portato alla legge Gelmini; un’impostazione basata sull’idea di un’università pubblica irriformabile. In quel documento ci sono cose da preservare: 1) la creazione di un ente terzo atto ad “osservare” in modo ampio i processi che caratterizzano l’università; 2) la chiara ed esclusiva attribuzione al personale accademico (senza riferimento predeterminato ai dati sopra osservati) dell’onere di valutare un membro dell’accademia stessa; 3) la drastica semplificazione degli oneri amministrativi. In que ldocumento ci sono anche cose da evitare accuratamente: 1) mettere al centro della discussione la valutazione delle riviste, dei comitati scientifici, e di altre cose sostanzialmente inutili alla reale comprensione del sistema università; 2) collegare per legge, in qualsiasi modo diretto o indiretto, la succitata valutazione ai processi di immissione e progressione in ruolo; 3) collegare per legge, in qualsiasi modo diretto o indiretto, la valutazione ai processi di finanziamento dell’università.

Nelle ultime settimane sono apparsi su ROARS due contributi di grande spessore, che meritano un approfondimento e una riflessione da parte di tutta la comunità accademica.

Il primo contributo viene da Giuseppe Valditara, capo dipartimento per la formazione superiore e la ricerca presso il MIUR, che ha inviato ai rettori un testo “preparatorio” finalizzato a raccogliere osservazioni e suggerimenti sulla valutazione dei docenti universitari. Il testo è molto interessante, per una serie di affermazioni che segnano una significativa presa di coscienza da parte del governo di alcuni problemi urgenti.

In estrema sintesi, Valditara propone tre concetti fondamentali:

  1. la valutazione dei prodotti della ricerca è utile e necessaria per i) governare l’università e ii) competere a livello internazionale;
  2. la valutazione è stata fortemente voluta da CUN e CRUI;
  3. la valutazione si è resa necessaria a causa di una irresponsabile autonomia che aveva prodotto danni notevoli alla qualità della ricerca e della didattica.

Tuttavia, Valditara riconosce che tale valutazione è stata attuata male, generando de facto:

  • un’autonomia controllata;
  • un eccesso di regolamentazione, distorsiva della volontà del legislatore;
  • comportamenti anomali da parte dei docenti (con alcuni esempi spassosi e a tutti noti come le tecniche di adozione dell’inattivo).

Valditara conclude quindi la sua riflessione prospettando alcune azioni quali:

  • una generale riduzione degli adempimenti amministrativi;
  • il passaggio ad un’autonomia responsabile, fatta di poche prescrizioni e di certezze nei premi e nelle sanzioni;
  • la raccolta e valutazione di dati aggregati sui prodotti da parte di un ente terzo;
  • un rinvio esclusivo del compito di valutazione alla comunità accademica.

Tutti argomenti apparentemente di buon senso, ma sul filo di una contraddizione latente, in parte terminologica e in parte semantica, ben evidenziata da un successivo commento di Maria Chiara Pievatolo. Riducendo all’essenza (e me ne scuso), tre sono i punti messi in evidenza da questo secondo contributo:

  • la competizione internazionale è un termine di per sé ambiguo, che non può essere tout-court obiettivo della valutazione (sarebbe, in realtà, più opportuno chiedersi per quali obiettivi vale la pena di competere);
  • anche ammettendo che l’obiettivo della competizione sia un generale progresso negli indici bibliometrici internazionali, cosa del tutto discutibile, non esiste prova documentata che la valutazione abbia prodotto su questo versante variazioni significative nel corso degli ultimi venti anni;
  • la valutazione ha, al contrario, prodotto forti limitazioni di autonomia delle università che non sembra possano essere risolte dal passaggio da un’autonomia controllata ad un’autonomia responsabile (tesi di Valditara) poiché, e questa mi pare l’argomentazione più rilevante portata dalla Pievatolo, dove c’è competizione eterodiretta non può esserci libertà del ricercatore e, soprattutto, non può esserci quel senso di comunità e cooperazione interdisciplinare che dovrebbe caratterizzare l’accademia.

Il documento di Valditara, quindi, da un lato riconosce il fallimento ANVUR e l’iper-regolamentazione che sta letteralmente strozzando gli atenei (e in ciò è pienamente condivisibile); dall’altro non individua una soluzione efficace poiché ritorna sul punto della valutazione (dei prodotti o chissà cos’altro) indicando in questa dimensione l’unica strada possibile per il governo dell’università. Si tratta, mutatis mutandis, di una riproposizione o, se vogliamo, di una lettura autentica della sfortunata impostazione che ha portato alla legge Gelmini; un’impostazione basata sull’idea di un’università pubblica irriformabile (si vedano a tal proposito i terribili editoriali di Giavazzi e Alesina(*)) e sulla proposta di una nuova università – azienda, governata da una visione meccanicistica, con valutazioni prescrittive, premi e sanzioni atti a “indurre” verso risultati positivi che la politica (o chissà quale altro soggetto) dovrebbe fissare.

Una discussione approfondita su questo tema richiederebbe probabilmente più spazio di quello qui disponibile, ma su alcuni punti tutti i ricercatori e i docenti dell’università dovrebbero razionalmente convergere:

1) La valutazione di come un sistema si comporta in relazione a determinati stimoli in ingresso è un elemento di buon senso, oltre che un principio cardine della teoria dei sistemi. Serve a capire sostanzialmente due cose: (i) se si possa raggiungere un determinato risultato (sempre ammesso che tale risultato corrisponda ad un reale interesse collettivo) modificando gli stimoli di ingresso; (ii) se ciò, al contrario, sia impossibile, rendendo necessaria una modifica (una riforma) del sistema. Questo fatto vale in generale per ogni ambito dello stato (la sicurezza, la salute, la giustizia) e una sua generale applicazione non può essere rigettata; conoscere meglio un sistema può solo essere positivo e può aiutare tutti (comunità accademica in testa) a migliorare ciò che ogni giorno si fa nel pubblico interesse.

2) Poiché la piena autonomia nella didattica e nella ricerca costituiscono un principio cardine e irrinunciabile del nostro ordinamento, esiste un preciso confine che non può essere superato; le riforme del sistema che la politica può attuare non possono quindi comportare condizionamenti in tali ambiti. A mio avviso, questo è il punto essenziale, che è stato troppo spesso ignorato o colpevolmente tollerato dalla comunità accademica; nel momento in cui una norma (o un decreto o una circolare)   produce un dimostrabile effetto, diretto o indiretto, sull’autonoma attività di un docente, essa andrebbe decisamente rigettata.

Alcuni semplici esempi di questa deriva sono sotto gli occhi di tutti. Se la mia intenzione di studiare un problema di nicchia compromette la mia carriera, non sono più libero. Se la mia modalità di trasferire il sapere viene intrappolata da una serie di vincoli che riguardano l’erogazione della didattica (mai termine fu più infausto per indicare lo splendido rapporto che può realizzarsi tra docente e discente), non sono più libero. Se la valutazione di un progresso di apprendimento deve “tenere conto” di indicatori che penalizzano, direttamente o indirettamente, la struttura in cui opero, non sono più libero. Questa è la ragione profonda per la quale la legge Gelmini è e resta una brutta parentesi da superare al più presto.

Cosa si può dunque preservare della proposta Valditara? Certamente alcune cose:

1) la creazione di un ente terzo atto ad “osservare” in modo ampio i processi che caratterizzano l’università (quanto e come pubblicano i ricercatori, su quali ambiti, quanti e quali progetti, quali le caratteristiche infrastrutturali dei nostri atenei, quali i servizi per studenti e docenti). Per tutto questo la realizzazione di un’anagrafe nazionale dell’università (prodotti scientifici e molto altro) è un obiettivo auspicabile e urgente;

2) la chiara ed esclusiva attribuzione al personale accademico (senza alcun riferimento specifico o predeterminato ai dati sopra osservati) dell’onere di valutare un membro dell’accademia stessa, per mezzo di un processo che non può essere che tra pari;

3) la drastica semplificazione degli oneri amministrativi (si vedano a tal proposito i numerosi interventi del CUN (**) ma numerose altre azioni potrebbero essere intraprese, ad esempio radicalmente riformando il grottesco sistema AVA-SUA).

Cosa va invece accuratamente evitato?

1) mettere al centro della discussione la valutazione della scienza, delle riviste, dei comitati scientifici, tutti aspetti mutevoli nel tempo, difficilmente codificabili e, sostanzialmente, inutili alla reale comprensione del sistema università;

2) collegare per legge, in qualsiasi modo diretto o indiretto, la succitata valutazione ai processi di immissione e progressione in ruolo. Come mi spiegava sempre un mio indimenticato maestro, la scelta di un nuovo membro della comunità è, per un accademico, il compito più alto, più arduo e probabilmente più imperfetto al quale siamo chiamati. In questo compito ogni meccanicismo va rigettato; troppi sono gli aspetti da considerare, troppe le situazioni, le sensibilità e le varietà che (fortunatamente) colorano l’accademia.

3) collegare per legge, in qualsiasi modo diretto o indiretto, la succitata valutazione ai processi di finanziamento dell’università che devono, al contrario, essere esclusivamente e univocamente legati alle dimensioni socioeconomiche dei territori coinvolti, alla capacità di una sana competizione sulle piattaforme di finanziamento nazionali ed internazionali e, a mio modestissimo avviso, ad una potente incentivazione di meccanismi di mobilità atti a rendere più semplice la libera circolazione di docenti e studenti su base nazionale ed internazionale.

Passando dalla teoria alla pratica, la politica ha tutto il diritto di stanziare fondi per dare spazio a discipline specifiche oppure privilegiare una ricerca più o meno legata allo sfruttamento industriale o al territorio. E la politica ha tutto il diritto fissare obiettivi di utilità pubblica, quali un un generale innalzamento della scolarizzazione universitaria o la necessità che l’immissione in ruolo debba essere filtrata da criteri di “omogeneità” nazionale… a condizione che poi sappia lasciare alla comunità accademica il compito di agire operativamente su tali obiettivi, indicando strade percorribili e/o fissando autonomamente criteri rispettosi del proprio status.

Si potrebbe obiettare che tutto questo è già stato sperimentato, che con la legge 382 abbiamo visto galoppini, amanti, parenti e portaborse fare carriere brucianti. E ritornare così al problema del sistema irriformabile di Alesina e Giavazzi. Tutto vero… è capitato. Ma capita anche che un carabiniere si macchi di un delitto vergognoso e che un magistrato prenda mazzette. E non per questo è stata necessaria l’imposizione di un regime controllato a forze armate e magistratura. L’università ha ottime dosi di anticorpi, più che sufficienti a trovare forza e idee per attuare dall’interno una trasformazione sana e trasparente… e restare pubblica. Non ci serve uno stato di perenne emergenza e, men che meno, un regime di libertà vigilata. Servono regole semplici e il ripristino di una dignità che è dovuta verso la stragrande maggioranza dei nostri colleghi; se possibile, serve uno stato un po’ meno occhiuto e invasivo, che ci lasci lavorare in pace, con i ritmi lenti della scienza e della conoscenza che molti giovani colleghi non hanno (purtroppo) mai conosciuto e che rendono il nostro lavoro così speciale. “Pauca sed matura” soleva dire Gauss… sarebbe bene non dimenticarlo, nell’interesse di tutti.

(*)

https://didattica.unibocconi.it/mypage/dwload.php?nomefile=12122720130107105210.pdf

https://didattica.unibocconi.it/mypage/dwload.php?nomefile=10113020101130083529.PDF

https://didattica.unibocconi.it/mypage/dwload.php?nomefile=10072220100722090504.PDF

(**)

https://www.cun.it/comunicazione/semplifica-universita/