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La ferita aperta della scuola

A rischio gli studi futuri dei ragazzi

27/06/2020
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la Repubblica

Andrea Gavosto

L'accordo faticosamente raggiunto fra governo e Regioni permette almeno, sia pure con grande ritardo, di fare le prime mosse per riaprire le scuole il 14 settembre.

Ben poco del testo approvato, tuttavia, rivela piena consapevolezza del rischio enorme che corrono i nostri studenti. Secondo i primi studi, negli Usa e in Inghilterra la perdita di apprendimenti per la chiusura delle scuole a causa del Covid 19 è fra il 35 e il 50%, a seconda delle materie e dei gradi: a questo punto dell’anno i ragazzi hanno imparato circa la metà dei loro coetanei un anno fa. L’Italia ha cancellato le rilevazioni Invalsi, perciò la caduta degli apprendimenti non si può misurare: impossibile però pensare che le cose siano andate meglio.

Gli studenti che provengono da famiglie con minori risorse economiche e culturali pagheranno un prezzo più alto ancora.

Avere perso così tanta scuola può generare danni permanenti, rendendo più difficili gli studi futuri e l’ingresso nel mercato del lavoro, come fu per la recessione del 2009. Il costo economico dell’assenza di scuola sarà per l’Italia molti punti di Pil.

In un Paese che tiene al proprio futuro, come sanare questa ferita dovrebbe essere l’impegno di tutti. Assai più che scendere in piazza per chiedere che tutto a scuola torni come se il virus non ci fosse più o esercitarsi al tiro al bersaglio sulla ministra dell’Istruzione. Certo, il ministero ha fatto gravi errori: chiudere la scuola il 10 giugno, invece di prolungarla fino a fine luglio, almeno a distanza; non provare nemmeno a fare ripartire tutti il 1° settembre, forse sapendo di non avere fatto il necessario affinché tutti gli insegnanti fossero subito in cattedra; fare uscire linee guida per la riapertura con incomprensibile ritardo.

Inoltre, ha voluto dare un senso di “normalità”, in un anno che normale non è. Soprattutto, non ha messo la perdita di apprendimenti al centro.

Il sentiero per settembre è stretto: richiede coraggio e prudenza. Da un lato, l’attività didattica deve ripartire al più presto in maniera potenziata, altrimenti la ferita si allarga. Si deve fare più di prima, meglio di prima.

Dall’altro, le scuole possono essere focolai di nuovo contagio: perciò la riapertura deve seguire le indicazioni degli esperti sanitari, a cominciare dal distanziamento, che peraltro sarà assai più blando che in altri Paesi europei, dove è 1,5-2 metri. A medici e scienziati dobbiamo tante vite salvate: dar loro ascolto è il minimo.

Di sicuro, la scuola a settembre non potrà essere la stessa di prima. Non è un male, perché costringerà a guardare oltre l’emergenza. Ci si dovrà stare più ore, se vogliamo insieme sicurezza e possibilità di recuperare parte del terreno perduto. L’insegnamento dovrà cambiare, con percorsi personalizzati e concentrandosi sugli elementi essenziali di ogni materia, imparando ad usare — docenti e allievi — le tecnologie per una vera didattica digitale, che non è quella fatta in emergenza. Scuole e presidi dovranno assumersi maggiori responsabilità per trovare, anche in futuro, le soluzioni adeguate alla propria realtà, con gli aiuti necessari. I genitori, che con il lockdown hanno capito l’importanza della scuola, non solo come parcheggio, dovranno stare più attenti a cosa vi succede.

Per riorganizzare spazi, tempi e modi della didattica serviranno ore di straordinario o assunzioni mirate di docenti ben formati, investendo le risorse necessarie, per le quali ieri si è fatto un passo avanti. E molte altre andranno trovate per rinnovare gli edifici scolastici, pensando a una didattica più moderna di quella frontale, ancora prevalente.

Di tutto ciò le linee guida parlano in modo troppo generico. Non sorprende: così è il nostro sistema d’istruzione, che deve tenere insieme scuole, ministero, Regioni, Province, Comuni, sindacati. I sistemi più avanzati per didattica, tecnologia e semplicità organizzativa, come quelli del Nord, stanno reagendo con maggiore rapidità alla perdita di apprendimenti: noi ci riusciremo solo se sapremo andare nella stessa direzione.

E questo era il problema già ben prima del virus.

L’autore è direttore della Fondazione Agnelli


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