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L’università sceglie il numero chiuso

Record di corsi con selezione all’ingresso. E non solo nelle facoltà dove lo sbarramento è imposto dalla legge Un trend legato a due fattori: aumento delle matricole e calo dei docenti. Soprattutto negli atenei del Nord

28/01/2016
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la Repubblica

Luca De Vito

LE UNIVERSITÀ italiane sono sempre più “chiuse”. Da Milano, dove ormai negli atenei pubblici sei corsi su dieci hanno una selezione all’ingresso, fino a Bari dove negli ultimi tre anni i corsi con lo sbarramento sono aumentati del 12 per cento. Una scelta obbligata, come spiega il prorettore alla didattica della Statale di Milano Giuseppe De Luca: «Direi quasi legata alla capienza delle mura. E, ovviamente, anche alla riduzione degli organici ».
Repubblica ha fatto un’indagine campione su 25 dei principali atenei pubblici italiani che, insieme, coprono circa il 60 per cento degli iscritti: dal 2012/2013 ad oggi, la quantità di corsi di laurea che prevedono uno sbarramento all’ingresso è salita circa del 3 per cento. Un dato che tiene conto anche degli atenei in controtendenza, come l’università di Catania e La Sapienza di Roma, dove il numero programmato è sceso in relazione al forte calo delle immatricolazioni.
A chiudere le porte non sono più (solo) Medicina, Architettura o Veterinaria, che hanno una programmazione a livello nazionale imposta dalla legge, ma anche i corsi dove le singole università possono decidere autonomamente. Secondo rettori e prorettori, è una scelta dettata dalla combinazione di due fattori: se da una parte, in determinati percorsi di studi, il numero delle matricole cresce o resta invariato (soprattutto al Nord), dall’altra diminuiscono le risorse per gli organici dei docenti. Così gli atenei sono costretti a mettere barriere, anche perché a prevederlo è la normativa nazionale: un decreto ministeriale del 2013 indica quote minime di professori in proporzione al numero di studenti perché un corso di laurea sia sostenibile.
Ogni ateneo, tuttavia, fa storia a sé. A Milano, l’aumento del numero chiuso è stata una costante negli ultimi tre anni: alla Statale, dove nel 2016 si è toccata la quota record di 16mila matricole, sono stati messi paletti soprattutto in area scientifica, da Agraria a Informatica. Discorso simile alla Bicocca, dove nel 2012 il numero programmato riguardava meno di un corso su tre: adesso c’è in più della metà. Anche a Venezia la crescita è netta: «In passato lo avevamo solo a Mediazione linguistica e culturale e a Scienze della società e servizi sociali, corsi dove bisogna essere in pochi per lavorare bene — spiega il rettore della Ca’ Foscari Michele Bugliesi — , poi abbiamo deciso di estenderlo perché siamo arrivati alla saturazione».
La decisione di ampliare o meno il numero chiuso è una scelta strategica. C’è chi ad esempio ha preferito non mettere mano alle selezioni, come Firenze: «La nostra idea è quella di non aggiungerne — dice Vittoria Perrone Compagni, prorettore alla didattica dell’ateneo — . Al momento facciamo fronte all’emorragia dei docenti impegnando di più quelli che abbiamo». O come l’università di Torino, che prima ha aumentato il numero chiuso, poi ha fatto marcia indietro: «Ci siamo accorti che molti degli studenti fermati dal test d’ingresso finivano per iscriversi ad altri corsi a cui non erano realmente interessati. Con effetti negativi a cascata per tutta la didattica», spiega il prorettore vicario Elisabetta Barberis. Al primo posto fra gli atenei che hanno visto aumentare il peso del numero chiuso c’è Trento. «Metteremo la selezione all’ingresso in tutti i corsi — annuncia il rettore Paolo Collini — . Perché? Lo abbiamo osservato: aumentano i laureati e il tasso di abbandoni diminuisce».
Ma la tendenza spesso confligge con le richieste degli studenti: «Il numero chiuso è frutto di politiche miopi, in contrasto con il principio di libero accesso alla conoscenza e con gli obiettivi europei di aumento dei laureati — dice Andrea Torti, del sindacato universitario Link — I test d’ingresso e la mancanza di misure strutturali per il diritto allo studio stanno rendendo l’università italiana sempre più elitaria».

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