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L'Università che vorrei

Passeggiando per la città di Thomas More, Saverio Regasto ci accompagna nella scoperta di una Università ideale, adeguatamente finanziata da un Paese che crede risolutamente nella propria crescita culturale.

19/08/2017
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ROARS

Passeggiando per la città di Thomas More, Saverio Regasto ci accompagna nella scoperta di una Università ideale, adeguatamente finanziata da un Paese che crede risolutamente nella propria crescita culturale. Dove l’effettività dell’accesso all’istruzione universitaria senza distinzioni di reddito è un valore fondativo del sistema. Dove si apre una stagione di profondo ripensamento sulle inaccettabili pratiche valutative perseguite da ANVUR. Dove alla valutazione della didattica da parte degli studenti si assegna un peso con modalità tali da non risultare controproducenti. Dove la dignità professionale dei professori universitari è riconosciuta nei fatti e i professori non devono scioperare, dopo averla vista calpestare da un blocco degli scatti retributivi profondamente ingiusto. Dove, in sintesi, si pratica quotidianamente una “Rivoluzione della Normalità” ispirata ai valori fondanti proclamati nella nostra Carta costituzionale.

Le passeggiate, si sa, fanno bene. Combattono il decadimento del corpo. E, soprattutto, quello dello spirito.

L’Università che vorrei è il luogo della ricerca scientifica di qualità, della formazione di una coscienza critica per migliaia di giovani, del trasferimento delle regole, giuridiche e non solo, del vivere civile in un contesto democratico e pluralista fondato sulla Costituzione e sul rispetto delle leggi, dell’innovazione tecnologica e, da ultimo e non per ultimo, del divenire luogo privilegiato del libero confronto delle idee fra i componenti di quella che un tempo si chiamava “Accademia”.

Il sistema universitario, dunque, non è un’appendice di questo o quel governo, non è neppure una caserma in cui indottrinare generazioni di (presunti) indisciplinati giovani e, soprattutto, non è il luogo dove l’organizzazione del lavoro fordista può avere cittadinanza. Al contrario, l’Università rappresenta il principale fattore trainante della crescita, soprattutto culturale e sociale, dell’Italia.

Altri Paesi, come ad esempio la Germania, hanno deciso di investire enormemente sulla creazione delle future classi dirigenti: hanno praticamente abolito le tasse universitarie, eliminando alla radice quella distinzione per censo (reale o presunta, qui da noi, anche a causa di fenomeni endemici della elusione e della evasione fiscale) che, già di per sé insopportabile, è destinata a creare, nel tempo, enormi sconquassi sociali.

Un Paese che vuole investire sul futuro dei propri giovani deve garantire un accesso potenzialmente di massa agli studi universitari e soprattutto non consentire che le Università (almeno quelle pubbliche) siano autorizzate a chiedere fino a duemila euro annui ai propri iscritti. Pagheremo, temo, nel tempo questa disgraziata decisione di rendere l’Università difficilmente accessibile per ragioni economiche e, soprattutto, di aver trasformato gli Atenei in luoghi di bassa mobilità (reale e sociale).

L’Italia è anche il Paese in cui l’attività di ricerca dei docenti e ricercatori universitari è valutata da un’Agenzia esterna, autonoma e indipendente, l’Anvur, che qualche giorno fai ha occupato le pagine di importanti quotidiani nazionali perché pare che, per l’ennesima volta, tale Agenzia abbia dapprima presentato al competente Ministero dati sbagliati (sulla scorta dei quali quest’ultimo ha distribuito i denari pubblici alle Università), poi ha più volte corretto questi dati sostenendo in maniera poco credibile che si sarebbe trattato di “errori materiali che hanno provocato conseguenze per qualche migliaio di euro”). Pare che le “correzioni” siano state numerose e anche piuttosto significative e pare anche che l’Anvur, evidentemente mal diretta, sia incappata in strafalcioni simili anche in passato.

In ogni caso, autorevolissimi ricercatori (come, ad esempio i fondatori del sito “Roars”) hanno più volte denunciato tali errori e, soprattutto, hanno più volte segnalato che i criteri adottati dal nostro Paese per la valutazione della produzione scientifica dei docenti e ricercatori siano molto discutibili e da tempo abbandonati per inaffidabilità da altri Paesi come il Regno Unito!

In un posto normale si terrebbe conto di queste circostanze e anche del fatto che i docenti universitari hanno aspramente criticato le metodologie, a dir poco grottesche, adottate per queste valutazioni. In un Paese normale, parrebbe opportuno ricordarlo, chi modifica atti che formano parte integrante e sostanziale di un provvedimento amministrativo compie un illecito. Se con dolo persino un reato. E in un Paese normale non ci si innamora follemente di pretestuose logiche della qualità, se criteri e indici di giudizio non sono ritenuti dalla comunità scientifica mondiale di ferrea e cristallina correttezza.

Non mi pare che sulla Valutazione della Qualità della Ricerca si sia fatto un buon lavoro, al contrario. Aridi numeri, per quanto oggettivi, non possono misurare con pienezza la qualità in un settore così delicato e difficile come la ricerca. Per le attività didattiche, poi, sempre qualche buontempone dell’Anvur ha ben pensato di suggerire agli Atenei, anche in spregio dei pareri dell’Autorità Garante della Privacy (era il 1997 e Presidente ne era Stefano Rodotà) di consentire la pubblicazione delle singole schede di valutazione che gli studenti anonimamente compilano quando seguono le lezioni (certo mi preoccuperei se agli studenti fosse consentito di giudicare un insegnamento che non hanno neppure frequentato!).

Ci mancava solo questa gogna mediatica che non tutela l’anonimato degli studenti e, soprattutto, che rischia di giudicare i docenti sulla base dei sentito dire o, peggio, in ragione dell’esito degli esami. Non nascondo che in alcune circoscritte situazioni docenti e ricercatori universitari hanno dimostrato, per così dire, un’ampia predisposizione professionale all’ozio, una considerazione assai ampia di sé stessi e una certa allergia ad esser considerati “dipendenti pubblici”, ma far di poche decine di fannulloni su 50.000 dipendenti e passa la
regola mi sembra davvero una insopportabile forzatura.

Eppure la qualità della ricerca italiana, nonostante la carenza di finanziamenti e gli stipendi da fame, resta ottima, se solo la si paragona agli altri Paesi occidentali, realtà in cui gli investimenti (pubblici e privati) sono decisamente più sostanziosi, anche nell’ordine di decine di volte. C’è stato un tempo in cui gli stipendi dei professori universitari erano leggendari, in particolare prima dell’adozione dell’euro, ma oggi essi si collocano al limite basso del ceto medio.

Un ricercatore di prima nomina, peraltro a tempo indeterminato, percepisce circa 1800 euro mensili netti, un professore ordinario, grado più alto della carriera universitaria, percepisce con l’immissione nel ruolo circa 3000 euro netti mensili. Non sono in assoluto stipendi da fame, ma di sicuro sono del tutto inadeguati al ruolo e alle funzioni. Se poi non si riconoscono, per ben 5 anni, gli scatti d’anzianità, allora il gioco è fatto!

Per questo, per la prima volta nella storia, un gruppo piuttosto ristretto (circa 5.000 di noi) ha proclamato uno sciopero che ci si auspica possa coinvolgere il più ampio numero di colleghi possibile: per convincere il governo che non investire sulla ricerca universitaria e sulla didattica (che alla prima è strettamente correlata) è un madornale errore le cui conseguenze si vedranno nel giro di pochi anni. Ma anche questa informazione è stata oggetto di critiche e, in qualche caso, persino di insulti. La stessa Ministra, Signora Valeria Fedeli che temo conosca poco l’Università per non averla semplicemente mai frequentata, si è affrettata a dichiarare pubblicamente che lo sciopero è un errore.

Ah, come cambiano gli atteggiamenti quando si sta dall’altra parte della barricata con un  lauto stipendio e tutta una serie di benefit legati alla carica: quando invece si era sindacalisti (la Signora Fedeli di mestiere faceva la sindacalista dei tessili della CGIL prima di esser nominata Ministra e prim’ancora di esser nominata parlamentare) si facevano sventolare le bandiere della protesta rivendicando i diritti dei lavoratori e denunciando “il modello degradante ostentato da una delle massime cariche dello Stato, lesivo della dignità delle donne e delle istituzioni”. Ora degradati si sentono decine di migliaia di docenti e ricercatori, rappresentati come sono da un vertice che non conosce neppure l’Università, per il trattamento economico in godimento (si fa per dire) e anche per l’abuso che si compie nel presentare dati relativi alla loro attività di ricerca colpevolmente errati.

Questo Paese avrebbe semplicemente bisogno di una “Rivoluzione della Normalità” per mettere al centro le parole d’ordine che la Costituzione repubblicana fin dal 1947 ci aveva suggerito: “dignità”, “solidarietà”, “merito”, “disciplina”, “onore”, “eguaglianza” e “libertà”. Diversamente, non avremo altro futuro che quello delle patinate e colorate pagine dei settimanali di pettegolezzo!

(testo apparso anche su Brescia Oggi)


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