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L’Ocse tira la volata a Renzi: «Il Jobs Act è una pietra miliare». E promuove la «Buona Scuola»

Università e mercato del lavoro. Rapporto sulla «Strategia per le competenze»: in Italia pochi laureati e «un po’ bistrattati». La consegna del ministro dell'economia Padoan al prossimo governo, qualunque sarà: le «riforme» continuano

06/10/2017
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il manifesto

Roberto Ciccarelli

La presentazione del rapporto Ocse sulla «strategia nazionale delle competenze» al ministero dell’Economia ieri è diventata l’occasione per tirare la volata elettorale al partito Democratico e al suo segretario Renzi sul Jobs Act. Angel Gurria, il segretario generale dell’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo con sede a Parigi, uno dei cervelli che elaborano le strategie neo-liberali sul mercato del lavoro o sull’istruzione e poi le valuta, è arrivato a sostenere che «il Jobs Act è una pietra miliare del recente processo di riforma», quello dettato al governo Berlusconi dalla famosa lettera della Bce del 5 agosto 2011 e poi applicato gradualmente dai governi successivi: Monti, Letta, Renzi e Gentiloni.

NELLE PAROLE di Gurria non sono mancati elogi all’altro pilastro del renzismo: la «Buona Scuola». Proprio quella «riforma» sulla quale l’ex premier ha detto di avere sbagliato qualcosa, ma ancora non ha capito di preciso cosa. Sarà, forse, l’impostazione manageriale impartita alle scuole attraverso l’istituzione della «chiamata diretta» da parte dei dirigenti scolastici. Proprio quella che, stando ai dati diffusi dal Miur è stata un flop a causa di un «boicottaggio» strisciante? Era il cardine della «Buona Scuola» di Renzi, è stato un fallimento: la «chiamata diretta» dei presidi-sceriffi, (o presidi-manager). Quella su cui Renzi e il Pd hanno immolato il loro «consenso» nella scuola. Per il secondo anno consecutivo, la procedura che permette ai presidi di scegliere i docenti in base alle «competenze» è stata «boicottata». I presidi hanno individuato meno del 30% dei circa 12 mila insegnanti finiti negli ambiti territoriali ( poco più di 3.300); tra gli insegnanti neo-immessi in ruolo la chiamata diretta ha interessato meno della metà delle persone (12.976 docenti su 27.388 assunti al 13 agosto).
Il boicottaggio è stato maggiore al Centro-Sud. Al Nord, dove le disponibilità erano maggiori, percentuali non alte: 66,21% per i neo-immessi in ruolo; 29,96% nei trasferimenti.

NONOSTANTE TUTTO, insieme all’immancabile «industria 4.0», per l’Ocse la «Buona Scuola» va «nella giusta direzione». «È la strategia di gran lunga più efficace per far crescere benessere, ricchezza e prodotto», ha aggiunto il ministro dell’economia Padoan. È il testamento per il prossimo governo che dovrà – non ci sono dubbi – continuare le «riforme».

È STATA inoltre accreditata l’idea per cui la «Renzinomics» abbia creato «850 mila nuovi posti di lavoro». Questa cifra riguarda gli occupati, non i posti di lavoro, com’è noto dalla fluviale produzione di dati dell’Inps, Istat e ministero del lavoro. Restando all’ultimo anno, secondo l’Inps, su oltre un milione di contratti di lavoro, a luglio 2017 quelli a tempo determinato e quelli stagionali erano 501 mila. Il maggiore contributo alla crescita dell’occupazione registrata negli ultimi dodici mesi (+823 mila) è stata quella del tempo determinato (+25,9%) e dell’apprendistato (+25,9%). Valutazione simile dell’Istat: nell’ultimo anno è stato registrato un aumento degli occupati pari a 417 mila, 350 mila a termine, 354 mila ultra-cinquantenni. È «l’effetto riforma Fornero», un’altra misura del famoso «pacchetto» Bce. Altro che Jobs Act. Nelle 280 pagine del rapporto «Skills Strategy Diagnostic Report -Italy» questa analisi materiale sulla qualità e le prospettive del lavoro prodotto dalla crescita senza occupazione fissa \[Jobless recovery\] in atto si perde per strada. Qui il «successo» è solo uno: quello del precariato.

RESTANO I CHIAROSCURI del paese reale dove i governi conducono un’intensa propaganda dei numeri per farsi incensare proprio dall’Ocse e dalle altre organizzazioni della governance economico-finanziaria. Un dato, su tutti, vale per approfondire la diagnosi del mercato del lavoro. Solo il 20% degli italiani tra i 25 e i 34 anni è laureato rispetto alla media Ocse del 30%. Quelli che hanno conseguito la laurea sono «un po’ bistrattati». Un gentile eufemismo usato dai ricercatori per descrivere il «social shaming» (umiliazione sociale pubblica) di alcuni ministri e viceministri (Fornero, Martone, Profumo, Carrozza, Poletti) contro i precari, i fuori corso e gli studenti. Gli ultimi cinque anni sono stati un florilegio: i ragazzi – e non solo i laureati – sono stati definiti «schizzinosi», «costi sociali» o «pistola», in fondo solo perché non accettano i «lavori spazzatura», gli stage o tirocini gratuiti. Gli stessi che saranno moltiplicati dall’esperimento di ingegneria social: l’«Alternanza scuola-lavoro», la vera eredità della «Buona scuola» di Renzi, quella che ha imposto a centinaia di migliaia di studenti l’addestramento al tirocinio gratuito. L’Ocse invita a «potenziare» un sistema che insegna a diventare forza lavoro adattabile al mercato, non soggettività che affermano il diritto a esistere nella società e sul mercato.

IN UN PAESE che ha tagliato, unico tra quelli Ocse, nove miliardi di euro dai bilanci di scuola e università, si conferma il fenomeno del «mismatch» [disallineamento]. L’Italia è «l’unico Paese del G7» in cui la quota di lavoratori laureati in posti con mansioni di routine è più alta di quella che fa capo ad attività non di routine. Questo avviene in un mercato del lavoro con il management meno laureato del mondo, soprattutto nelle medie e piccole imprese a gestione familiare che rappresentano più dell’85% del totale e circa il 70% dell’occupazione del paese.

QUESTA È UN’ANTICA costante italiana – frutto di una chiusura corporativa della società e di un nano-capitalismo che si riproduce per via endogamica – che non è stata scalfita da un’altra «riforma» benvoluta a suo tempo dalle alte sfere della governance: la Berlinguer-Zecchino sui cicli di studio e i crediti universitari di quasi vent’anni fa. Nel 2017 il rapporto Ocse sull’istruzione ne ha confermato il fallimento. L’Italia ha il più basso numero di laureati: tra i 25 e 64enni, il 18% ha una laurea. La media europea è del 33%. La situazione si riflette sull’intero corpo sociale: più di 13 milioni di adulti hanno «competenze» di basso livello, concentrati tra i «più anziani», «gli immigrati» e tra chi lavora «nelle imprese più piccole».

LA MINISTRA dell’Istruzione Fedeli, presente al road-show renziano dell’Ocse, ha riconosciuto che l’investimento pubblico sulla «filiera» del sapere è «prioritario». Però di quei nove miliardi di euro tagliati all’alba dell’austerità non c’è traccia nell’ultima legge di bilancio della legislatura.


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