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"L'Italia digitale unisce la politica Il cambiamento cominci dalla scuola"

«Nella scuola c'è bisogno di coding, di pensiero computazionale e di un'educazione alla cittadinanza digitale per tutti. Solo così il lavoro del Team Digitale, del Dipartimento, le altre iniziative per fare dell'Italia un Paese digitale avranno un futuro». —

28/12/2019
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La Stampa

Bruno Ruffilli


Solidità, messa in sicurezza, stabilità: Luca Attias parla come un ingegnere, e lo è. Solo che non si occupa di case e infrastrutture analogiche, ma di bit. Romano, 54 anni, è dal 31 ottobre 2018 Commissario Straordinario per l'attuazione dell'Agenda Digitale. Dal primo gennaio 2020 sarà Capo del Dipartimento per la Trasformazione Digitale. Al di là della denominazione, il cambiamento più rilevante è che questa struttura, istituita lo scorso giugno, dipende direttamente dalla Presidenza del Consiglio. E così l'infinita rincorsa dell'Italia verso le nuove tecnologie perde il carattere di un impegno "straordinario" per diventare ordinario, costante, quotidiano, e possibilmente non messo in discussione da cambiamenti politici.
Cambiamenti che non hanno toccato il Team Digitale: ha resistito a quattro Governi.
«Il team è nato con Diego Piacentini, che ha lavorato due anni gratuitamente per avviare il "sistema operativo del Paese", come lo ha chiamato. Un'esperienza alla quale ho cercato di dare continuità, e dalle forze politiche ho trovato un atteggiamento maturo: il nostro non è il primo progetto di accelerazione sul digitale, ma è il primo che resiste a due maggioranze completamente diverse. E che nel Governo attuale esista un Ministro apposta per l'Innovazione è il segnale di una consapevolezza in crescita a destra come a sinistra».
Lei da che parte sta?
«Sono apartitico, lavoro da vent'anni nella Pubblica Amministrazione, credo di conoscerne eccellenze e debolezze».
La Corte dei Conti, dove era Dirigente Generale dei Sistemi Informativi Automatizzati, è un'eccellenza: e il resto?
«Varia, quello su cui bisogna intervenire però è l'interoperabilità tra le amministrazioni. Che va affrontata a livello tecnologico, ma prima ancora psicologico e morale. Finché alcuni dirigenti della PA riterranno i dati come una loro proprietà sarà impossibile il coordinamento. Oggi - mi spiace dirlo - ci sono carriere costruite su questo, e passeranno anni prima di punire chi non condivide dati che non sono suoi».
Cosa pensa dei ringraziamenti a Casaleggio nel Piano 2025 del ministro Pisano? Gli interessi di un'azienda possono davvero influenzare la digitalizzazione del Paese?
«Io non ho avvertito quell'influenza. Per la stesura del Piano il ministro Pisano si è confrontato con molti interlocutori, mi sarei augurato un dibattito nel merito, non su un nome nei ringraziamenti».
Ma gli altri sono quasi tutti di docenti universitari...
«E il Team Digitale? Piacentini veniva da Amazon, oggi c'è chi è in aspettativa da IBM e chi lavora in altre aziende. Non dobbiamo temere la commistione pubblico-privato. E' un'occasione per imparare, sempre vigilando perché le decisioni siano prese nell'interesse dello Stato. D'altra parte oggi una grandissima parte delle PA italiane è bloccata da ditte che le tengono in pugno da decenni, perché mancano competenze in campo tecnologico. Ci saranno forse casi di tangenti, ma per la maggior parte è pigrizia mentale, si delega e basta».
Come va lo Spid, il progetto pubblico di identità digitale?
«Abbiamo 5,4 milioni di iscritti, ma è un dato che non mi soddisfa: dovrebbero essere almeno 30 milioni, perché lo Spid potrebbe essere usato per accedere ai servizi dell'Inps, dell'Inail, dell'Agenzia delle Entrate e molti altri. Invece a oggi il modello di business è poco chiaro, i provider non ci hanno guadagnato niente, e fino a poco fa non sapevamo nemmeno se lo Spid sarebbe stato gratuito dopo la fine dell'anno per chi lo ha già. Le killer application che hanno fatto crescere le iscrizioni sono state 18 App e il reddito di cittadinanza, poi ci sono Pago PA e a breve l'app IO, ma servono investimenti».
Saremo tra i primi nella Ue per l'identità digitale, ma nel Desi (Digital Economy and Society Index) siamo al 24° posto su 28. Come mai?
«Il 26% della popolazione italiana non usa internet, nemmeno per Google Maps: per queste persone la banda larga o i servizi della PA non significano niente, per quanto noi possiamo migliorarli, e lo abbiamo fatto. Dobbiamo lavorare sull'inclusione per battere il digital divide».
Cosa augura all'Italia per il 2020?
«Nella scuola c'è bisogno di coding, di pensiero computazionale e di un'educazione alla cittadinanza digitale per tutti. Solo così il lavoro del Team Digitale, del Dipartimento, le altre iniziative per fare dell'Italia un Paese digitale avranno un futuro». —
 


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