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L’Italia centra l’obiettivo Europa2020: penultimi per numero di laureati

L’italia ha già raggiunto gli obiettivi Europa2020 in tema di istruzione. Ma non c’è da rallegrarsi.

29/04/2017
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ROARS

Alberto Baccini

L’italia ha già raggiunto gli obiettivi Europa2020 in tema di istruzione. Ma non c’è da rallegrarsi. Primo obiettivo: raggiungere il 26% di laureati sulla popolazione di 30-34 anni, un valore molto più basso dell’obiettivo globale europeo fissato al 40%. Obiettivo raggiunto:  i laureati sono il 26,2% della popolazione. Solo la Romania con il 25,6% di laureati ha un risultato peggiore del nostro. Secondo obiettivo: ridurre al 16% la quota di giovani che lascia la scuola dopo la scuola media inferiore. Obiettivo dell’europa: 10%. Anche in questo caso obiettivo raggiunto. Qui condividiamo con la Bulgaria il quintultimo posto in classifica. Mentre gran parte dei paesi europei sta sotto il 10%, fanno peggio di noi solo Malta, Romania, Spagna e Portogallo. Per quale ragione l’Italia ha obiettivi così poco ambiziosi in tema di istruzione? E perché si trova nelle posizioni di coda di entrambe le classifiche? Perché l’Italia  è l’unico paese europeo che ha ridotto in modo drastico le spese complessive per l’istruzione. Avere obiettivi poco ambiziosi ha permesso di raggiungerli, pur in presenza di un massiccio disinvestimento in istruzione. E c’è chi è pronto ad approfittare della notizia.

Difficile immaginare una informazione più ambivalente di quella appena rilasciata da Eurostat. E non è questione di interpretazione, di vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Eurostat certifica infatti che l’Italia ha già raggiunto gli obiettivi prefissati per Europa2020 in tema di istruzione. E pur avendo raggiunto quegli obiettivi, l’Italia è il secondo peggior paese per numero di laureati in Europa, e quinto peggior paese per quota di giovani che lasciano precocemente gli studi.

Ma andiamo con ordine. Gli obiettivi europei in tema di istruzione riguardano due indicatori. Il primo è la percentuale di laureati sulla popolazione di 30-34 anni di età. L’obiettivo al 2020 per l’Europa nel suo complesso è stato fissato al 40% ed è stato quasi raggiunto (39,1%). L’Italia ha un obiettivo fissato al 26%, quindi molto inferiore a quello europeo. E lo abbiamo già raggiunto: i laureati sono il 26,2% della popolazione. Peccato non ci sia molto da festeggiare. Solo la Romania con il 25,6% di laureati ha un risultato peggiore del nostro. Siamo ben lontani dai paesi con i migliori risultati: Lituania (58.7%), Irlanda (52.9%) e Svezia (51.0%). Ma siamo ben lontani anche dai nostri vicini francesi (43,6%), dalla Spagna (40,1%) e dalla Germania (33,2%). Da quale posizione partivamo? Nel 2002 eravamo al quintultimo posto. Nel 2016 siamo stati superati da Repubblica Ceca, Malta e Slovacchia. La Repubblica Ceca, che partiva da una percentuale di laureati nel 2002 simile alla nostra, in quattrordici anni l’ha pressoché triplicata, mentre noi siamo riusciti appena a raddoppiarla.

Il secondo indicatore è la percentuale di popolazione nella fascia di età 18-24 che non ha un titolo di studio superiore alla scuola secondaria inferiore: tanto più bassa la percentuale tanto migliore il risultato.  L’Europa nel suo complesso, con il 10,7%, è vicina a raggiungere l’obiettivo globale del 10% fissato per il 2020.  Anche in questo caso l’obiettivo dell’Italia è molto meno ambizioso essendo fissato al 16%. Ed anche in questo caso l’obiettivo è già stato raggiunto e superato (13,8%). Peccato che anche in questo caso siamo nella parte bassa della classifica: condividiamo con la Bulgaria il quintultimo posto. E peggio di noi fanno solo Malta, Romania, Spagna e Portogallo. Nella gran parte dei paesi europei la quota di popolazione giovanile che lascia precocemente gli studi è ormai inferiore al 10%.

Per quale ragione l’Italia ha obiettivi così poco ambiziosi in tema di istruzione? E perché si trova nelle posizioni di coda di entrambe le classifiche? [Roars si era occupata del tema già qui] Per rispondere a queste due domande è opportuno ricordare che l’Italia dall’inizio della crisi è l’unico paese europeo che ha ridotto in modo drastico le spese complessive per l’istruzione, e in particolare per l’istruzione universitaria. Avere obiettivi poco ambiziosi ha permesso di raggiungerli, pur in presenza di un massiccio disinvestimento in istruzione.

Non mancheranno commentatori che sosterranno che, dopo la cura dimagrante e le riforme che si sono susseguite, abbiamo una scuola ed una università pubblica che costano meno e funzionano meglio. Che si è perseguito l’efficienza e si sono ridotti sprechi e privilegi.

Sicuramente molti saranno tentati di spiegare questi dati ricorrendo all’ormai ben noto adagio per cui la scuola e l’università italiane non sono in grado di formare giovani con competenze appetibili per le imprese.

E non mancherà chi spiegherà questi dati in relazione all’assenza nel sistema italiano di un forte indirizzo di istruzione post-secondaria professionalizzante. Tanto più che questo è uno dei dei temi caldi nell’agenda politica del MIUR. E’ del dicembre 2016 la norma, si dice fortemente voluta dalla Conferenza dei rettori (CRUI), che prevede la possibilità per le università di istituire  nuovi corsi di laurea a orientamento professionalizzante. Questi nuovi corsi si sovrapporranno con le attività dei già esistenti ITS (Istituti Tecnici Superiori). Sembra che Confindustria preferirebbe il potenziamento di questi ultimi perché più agili e snelli rispetto alle università, gravate dalla burocrazia del MIUR e dell’Anvur (agenzia nazionale di valutazione). E’ possibile quindi che la politica si troverà a dover scegliere dove incanalare fondi tra ITS e lauree professionalizzanti. E che i dati Eurostat siano utilizzati per portare acqua a uno o ad entrambi i mulini.

Difficile immaginare che l’introduzione di corsi professionalizzati sia in grado da sola di invertire la tendenza che ci vede allontanarci dai paesi europei con i livelli di istruzione più elevati. Ci vorrebbero risorse ingenti (3% del PIL investito in ricerca e sviluppo) e tempi lunghi per colmare il divario che ormai ci separa dai paesi europei con cui di solito ci confrontiamo. Ma un impegno di questo tipo è troppo grande per una classe dirigente e politica piegata su se stessa e interessata solo a risultati di breve periodo.

Articolo pubblicato originariamente su Il Mattino del 27 aprile 2017


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