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L'insegnamento: Una missione?

Il 2 giugno il Presidente della Repubblica ha nominato un gruppo di cittadini a Cavalieri al merito, subito pomposamente battezzati dalla stampa “eroi della pandemia”. Fra questi figurano due docenti

10/07/2020
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ROARS

 Fernanda Mazzoli

Il 2 giugno il Presidente della Repubblica ha nominato un gruppo di cittadini a Cavalieri al merito, subito pomposamente battezzati dalla stampa “eroi della pandemia”. Fra questi figurano due docenti: uno che ha continuato a fare le videolezioni dal letto di ospedale dove era  ricoverato per essere risultato positivo  al Covid 19 e l’altra è una maestra precaria che, malgrado il suo contratto di assunzione fosse scaduto, ha proseguito  le sue lezioni su piattaforma digitale per non lasciare i suoi alunni. Ben venga il riconoscimento dato ad esponenti di una categoria solitamente misconosciuta e bistrattata (in primo luogo, proprio da politici e giornalisti che adesso battono la grancassa dell’eroismo e del sacrificio),  purché esso non snaturi nel senso comune due idee semplici e basilari in una Repubblica che si vuole fondata sul lavoro: i lavoratori ammalati hanno diritto all’interruzione dell’attività lavorativa,  nessun lavoratore cui è scaduto il contratto continua  a lavorare gratuitamente.

Una notizia marginale, rapidamente inghiottita dall’incessante flusso di informazioni di varia natura ed attendibilità che ci hanno sommerso nei giorni dell’emergenza, merita una più ampia risonanza, per gli scenari che potrebbe prefigurare e le preoccupazioni che ne dovrebbero nascere.

Si tratta della nomina, il 2 giugno, da parte del Presidente della Repubblica di un gruppo di cittadini a Cavalieri al merito, subito pomposamente battezzati dalla stampa “eroi della pandemia”. [1] Fra questi figurano una Preside che si è prontamente attivata per procurare dispositivi digitali agli studenti che, essendone privi, sarebbero rimasti esclusi dalla didattica a distanza e due docenti. E’ sulle motivazioni addotte per questi ultimi che è interessante soffermarsi. Uno dei due ha continuato a fare le videolezioni dal letto di ospedale dove era  ricoverato per essere risultato positivo  al Covid 19 e l’altra è una maestra precaria che, malgrado il suo contratto di assunzione fosse scaduto, ha proseguito  le sue lezioni su piattaforma digitale per non lasciare i suoi alunni.

Non entro nel merito delle scelte individuali operate dai due docenti, la cui passione per l’insegnamento e il mantenimento della relazione pedagogica con gli allievi è assolutamente encomiabile, ma ritengo che proprio il riconoscimento ricevuto dalla più alta carica dello Stato abbia proiettato la loro vicenda dalla dimensione privata a quella pubblica.

Il caso del docente ricoverato pone in primo piano un problema rimasto sottotraccia durante la DAD – quello della malattia- eppure ben presente a chiunque si interrogasse sulle nuove modalità di lavoro, non normate e non previste dal Contratto nazionale, che hanno coinvolto i lavoratori della scuola, insegnanti ed ATA. La soluzione, provvisoria, è stata demandata alla discrezionalità e alla disponibilità dei singoli, a partire dal tipo di patologia riscontrato: una storta non compromette la capacità di lavorare al computer,  mentre un febbrone sì.

Ora, ciò che colpisce nella decisione di segnalare il comportamento meritevole del docente ospedalizzato, al di là dell’inevitabile dose di pathos retorico che sempre si accompagna a tali occasioni, è l’apertura verso un futuro forse non troppo lontano in cui il diritto alla malattia diventa un’opzione- se non  una implicita dichiarazione di scarsa affezione ad un lavoro sempre più declinato nei termini di missione- e la rinuncia ad esso un parametro meritocratico degno di menzione.

A confermare un orientamento in questa direzione spinge anche la seconda onorificenza assegnata. Mi auguro vivamente che la scuola di appartenenza abbia provveduto perlomeno ad un qualche riconoscimento economico della docente precaria in questione. Quanto alla sua premiazione, essa consacra a livello di immaginario collettivo proprio l’idea che insegnare non è una professione- con tanto di profilo giuridico e di contratto con relativi diritti e doveri- ma piuttosto una missione, da esercitarsi quindi a titolo gratuito, un’attività di volontariato cui basta la gratifica morale.

Le due vicende potrebbero semplicemente finire tra le pagine di una rinnovata edizione del libro di De Amicis aggiornata ai tempi del Covid e da lì strappare qualche lacrima di commozione e qualche sorriso, se non fosse che proprio la DAD ha evidenziato in modo drammatico uno stravolgimento delle modalità lavorative che rischia di mettere a repentaglio tutele e garanzie maturate nel corso di decenni di lotte per il riconoscimento dei diritti del lavoro, diritti sempre più attaccati e smantellati in ogni settore lavorativo, all’insegna di precarizzazione e flessibilità crescenti.  I contratti collettivi nazionali sono da tempo nel mirino delle politiche di stampo liberista che hanno ispirato e guidato questa controffensiva, cui la DAD- con la sua messa in quarantena delle norme contrattuali- fornisce terreno quanto mai propizio.

Se queste dinamiche si incontrano con la tendenza oggi piuttosto evidente a fare dell’eccezionalità una modalità ordinaria di governo della cosa pubblica, finisce per  disegnarsi un quadro la cui allarmante coerenza d’insieme dovrebbe suscitare la consapevolezza della necessità di una risposta adeguata e in tempi brevi, che non lasci spazio a progressive manovre di erosione del ruolo docente e delle sue tutele contrattuali.

Certamente, lo slittamento della professione insegnante verso una generica attività di tipo sociale indirizzata ai giovani non ha atteso né la DAD, né la cerimonia di premiazione presidenziale per manifestarsi : ha trovato fondamento nelle riforme ministeriali succedutesi a ritmo incalzante, nella didattica delle competenze, nel riconoscimento della scuola come “comunità educante”, nel credito dato a disparati metodi di insegnamento il cui comun denominatore è il sospetto, quando non il disprezzo, nei confronti dei contenuti culturali.  Si è avvalso dell’allineamento di molti docenti- vuoi per protagonismo, vuoi per rassegnazione – alle logiche del  “progettificio”, di quel supermercato dell’offerta formativa in cui si sono trasformate troppe scuole.

Ora, un docente che rinuncia a ciò che fa la peculiarità della sua professione-  la centralità del rapporto con la disciplina, con i suoi contenuti e metodi- è un docente svuotato, fragile, liquido, disposto a  diventare un tuttologo e un tuttofare, un animatore e un  generico operatore sociale.

Un insegnante dimidiato nella sua specificità professionale è pronto ad esserlo anche nella sua figura giuridica, a maggior ragione una volta invischiato nelle sabbie mobili della didattica a distanza.

La fase attuale richiede massima consapevolezza e vigilanza: essa segna, infatti, l’accelerazione e la maturazione – sul piano culturale, organizzativo e giuridico-   di una serie di processi in atto da tempo  e che mirano ad una sostanziale liquidazione sia di un patrimonio di diritti faticosamente conquistato dai lavoratori nel corso del Novecento, sia di un insegnamento strutturato sul “corpo forte delle discipline”. [2]

Ben venga il riconoscimento dato ad esponenti di una categoria solitamente misconosciuta e bistrattata ( in primo luogo, proprio da politici e giornalisti che adesso battono la grancassa dell’eroismo e del sacrificio),  purché esso non snaturi nel senso comune due idee semplici e basilari in una Repubblica che si vuole fondata sul lavoro: i lavoratori ammalati hanno diritto all’interruzione dell’attività lavorativa,  nessun lavoratore cui è scaduto il contratto continua  a lavorare gratuitamente.

[1]https://www.corriere.it/cronache/cards/mattarella-nomina-cavalieri-merito-sono-eroi-pandemia-covid-19/professore.shtml

[2]Devo l’espressione a Giulio Ferroni, La scuola impossibile, Roma, Salerno Editrice, 2015.


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