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L’industria snobba i dottori di ricerca. Solo il 9% investe in innovazione

L'indagine Alma Laurea. Un tessuto fatto di piccole e medie imprese, scarsi investimenti da parte dello Stato. Ecco perché i giovani super-specializzati fanno le valigie e vanno all’estero

02/10/2015
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Corriere della sera

Valentina Santarpia

Solo il nove per cento delle imprese italiane realizza interventi di Ricerca e Sviluppo: più o meno un quarto di queste lo fa al di fuori dell’azienda, attraverso rapporti con università, centro di ricerca e altre imprese, ma «incontrando difficoltà a interagire con i centri di ricerca più sofisticati: l’accessibilità al credito, in particolare, rappresenta ancora un ostacolo molto forte», come sottolinea Raffaele Brancati, presidente del centro studi Monitoraggio economia e territorio, durante un convegno nella sede del Consiglio nazionale delle ricerche. Non c’è da meravigliarsi dunque se la percentuale di dottori di ricerca italiani che scelgono di andare all’estero sia altissima: il 10%, contro il 5% dei laureati magistrali, come emerge dall’ultimo focus di Almalaurea sul dottorato di ricerca. Cosa spinge a partire? Stipendi più alti (2124 euro netti al mese per chi emigra contro 1420), maggiori chance di usare le competenze acquisite (lo sostiene il 72%), maggiori possibilità di svolgere attività di ricerca (il 52%, contro il 21% che resta entro i confini, lavora come ricercatore o come docente universitario).

I peggiori in Europa

Che l’Italia non abbia un’alta propensione alla ricerca, del resto, lo dimostrano due dati. Uno è quello brutalmente economico, che testimonia come il nostro Paese investa molto meno degli altri in Ricerca e Sviluppo, l’1,25% del Prodotto interno lordo nel 2012, contro il 3,80% della Finlandia e il 2,89% della Germania. E infatti l’Italia ha la percentuale di dottori più bassa d’Europa: su mille abitanti, l’Italia ne ha 0,6, contro i 3,7 della Finlandia e i 2,6 della Germania. Ma in Italia c’è anche un tessuto di piccole e medie imprese a gestione familiare, con imprenditori «a bassa preparazione»: nel 2013 il 28% dei manager aveva completato tutt’al più la scuola dell’obbligo.

Un’elite di ricchi

Di fronte allo scarso investimento generale, i dottori di ricerca restano una categoria d’elite. Nella maggioranza dei casi sono donne (il 53%), giovani (l’età media è 33 anni), e soprattutto appartenenti a classi sociali elevate: il 24% di chi sceglie la strada del dottorato ha entrambi i genitori laureati, il 33% ha alle spalle una famiglia con uno status economico solido, soprattutto se si specializzano nelle scienze economiche, giuridiche e sociali. Del resto, gli sbocchi sono spesso incerti, lenti e con guadagni che inizialmente non allettano. Vero è che l’87% dei dottori trova un’occupazione entro un anno dal conseguimento del dottorato, ma la precarietà coinvolge il 57% dei dottori. Vero è che guadagnano in media di gran lunga di più dei laureati (1493 euro rispetto ai 1065 dei colleghi magistrali) ma c’è una grande differenza tra i dottori in scienze della vita (1732 euro) e scienze di base (1556) e scienze umane (1200 euro), che sono anche quelli più spesso impiegati a tempo parziale. La vera consolazione? Che i dottori sono in media soddisfatti del proprio lavoro. Su una scala 1-10, la soddisfazione complessiva raggiunge il 7,4, punteggio che raggiunge il 7,6 tra i dottori nelle scienze di base e 7,5 tra i dottori in scienze della vita.


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