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L’importanza di sottoporsi a una valutazione

di Gian Antonio Stella

07/04/2017
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Corriere della sera

D icono che un «watusso» di nome Kenyamuhungu, anni fa, riuscì a superare i 2,18 metri quando il record mondiale era di 2,03.

L’asticella, però, non era omologata: niente primato. È sulla asticella eguale per tutti che puoi fare confronti. E proprio l’asticella, oggi, sarà protagonista a Palazzo Chigi: passerà infine, dopo scontri durissimi, l’idea d’un metro di valutazione trasparente dei nostri studenti, quindi della nostra scuola, per capire come è conciata?

Sulla carta pare di sì. Ma le resistenze sono così forti nei sindacati, nella sinistra e tra i docenti (c’è chi attacca sui siti online la «pericolosità» dell’«elemento di concorrenza che si introduce» perché «va a sostituirsi ad un sapere costruito tra colleghi, cooperativamente, nella collegialità, nello scambio e nel confronto») che non sono escluse sorprese dell’ultimo momento. Tanto più che la svolta «valutativa» viene erosa da mesi.

Il braccio di ferro, si sa, è tra due visioni opposte. Di qua c’è chi sostiene la necessità di trovare un metro di giudizio che consenta d’avere una panoramica quanto più fedele possibile della preparazione dei nostri ragazzi delle medie e delle superiori (oggi hanno nomi diversi, ma ci capiamo) da Vipiteno a Lampedusa spazzando via la foschia che impedisce di capire quanto essi siano all’altezza delle sfide della vita dato il contrasto ad esempio tra le «pagelle» P.i.s.a-Ocse e i voti agli esami di maturità. Dove gli stessi licei, le stesse città, le stesse regioni appaiono a pezzi oppure trionfanti.

Di là c’è chi, al contrario, rifiuta il principio stesso che questo metro di giudizio il più possibile «oggettivo» possa esistere. Men che meno che questo dato «scientifico», al di là delle risse annuali sulla severità delle scuole friulane o del lassismo di quelle siciliane, possa essere rappresentato dalle prove Invalsi. Cioè l’Istituto nazionale che, per conto dello Stato, dovrebbe «effettuare verifiche periodiche e sistematiche sulle conoscenze e abilità degli studenti e sulla qualità complessiva dell’offerta formativa», «studiare le cause dell’insuccesso e della dispersione scolastica», «effettuare le rilevazioni necessarie per la valutazione del valore aggiunto realizzato dalle scuole» e così via.

Per capire quanto sia duro lo scontro basti leggere l’intervento di Barbara Morleo, di Usb-scuola, nemica dei test, su orizzontescuola.it: «I miei bambini un giorno potranno dire: la mia maestra era contro le prove Invasi e infatti non ce le ha mai somministrate, la mia maestra era contro il bonus per il merito e infatti ha votato contro l’insediamento del Comitato di Valutazione e si è rifiutata di “concorrere” alla distribuzione del bonus». Di più: «Ritengo fondamentale insegnare il rifiuto! E ritengo fondamentale anche insegnare ad essere sovversivi verso la Legge quando la Legge è ingiusta».

Certo, sono posizioni estreme. E diamo pure per scontato che quei test contestati da una buona fetta degli insegnanti, dei sindacati e dei partiti decisi a cavalcare le proteste fin dai tempi in cui contro Luigi Berlinguer scesero in piazza pure berlusconiani e finiani (ahi ahi, gli archivi...) siano comunque imperfetti. E destinati a non raggiungere mai, per quanto possano essere migliorati, la perfezione divina. Perfezione che peraltro non viene chiesta a maestri e professori.

Di base, però, c’è il rifiuto totale e assoluto, anche se non confessato, di ogni valutazione. Per impedire ad ogni costo una fotografia panoramica della scuola italiana da Nord a Sud, da Est a Ovest, che aiuti a capire. E quindi a intervenire nel modo giusto. Per capirci: non solo esigendo di più da docenti a volte incapaci ma anche esigendo il raddoppio degli sforzi e dei finanziamenti in certe aree dove l’abbandono scolastico è spaventoso.

L’asticella unica: ecco il traguardo obbligato. Perché, come spiega il responsabile dell’Area prove nazionali dell’Invalsi Roberto Ricci, «se a uno studente viene chiesto di saltare venti centimetri e a un altro un metro è impossibile avere dei parametri che aiutino a capire». Al contrario, quella trasparenza totale (con i soli limiti della privacy per i singoli studenti) che avrebbe dovuto aiutare a comporre il quadro d’insieme con criticità ed eccellenze, è stata via via svuotata.

Prendiamo la maturità: bene che vada, dal 2018/19, i risultati dei test (fatti forse a febbraio e ben separati dalla maturità) non saranno espressi in un punteggio secco (chissà che trauma...) ma con una lettera (dalla A alla B alla C a scendere...) più due righe di giudizio. Dopodiché i risultati saranno comunicati ai ragazzi e alle scuole. Ma come spiega la presidente dell’Invalsi Anna Maria Ajello, «non si saprà come è andata nella sezione B dell’istituto Alfieri o nella C del Cavour. Solo le scuole sapranno. E non faremo classifiche: solo un rapporto sui risultati generali. Sì, è un compromesso. Però sarà comunque utilissimo». E i punteggi ottenuti? Ne resterà traccia, pare, solo nel curriculum: la maturità è un’altra faccenda. Ma potranno pesare sull’ammissione all’università sgravando gli atenei da ulteriori test di ammissione? No. Conclusione: altri studenti illusi «da voti di maturità stratosferici», come ha denunciato Andrea Ichino, continueranno a iscriversi a «corsi di ingegneria, fisica e matematica dove non riescono a superare neppure gli esami iniziali». E altri, demoralizzati da voti severi, rinunceranno (salvo iniezioni di fiducia proprio dai test Invalsi) alla loro vocazione. Ma gli atenei, dicono, avranno facoltà di dare un’occhiata, a quei test... Grazie. Ammesso, come dicevamo, che nella notte qualche misteriosa manina non faccia altri ritocchi... In fondo, se non c’è un’asticella, ognuno può raccontare a se stesso di esser lì lì per fare il record planetario...


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