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L'esempio tedesco per frenare la fuga dei cervelli

Gianfranco Viesti

29/12/2019
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Il Messaggero

L'università pubblica italiana è una delle grandi istituzioni su cui si può fondare, con il tempo, una ripresa del nostro Paese. Non è uno slogan facile, ma una realtà evidente. Una ripresa basata su cittadini con livelli di istruzione sempre maggiori, che partecipano alla vita pubblica, curano la propria salute, e contribuiscono all'economia come imprenditori e lavoratori: da questo punto di vista la situazione dell'Italia è davvero pessima, con i più bassi livelli di giovani laureati fra tutti i paesi europei. Basata sull'avanzamento della ricerca: quella di base e quella più applicata, che si trasforma prima o poi in posti di lavoro più solidi nella competizione internazionale di quelli che costano poco; e su relazioni strette fra le università, le istituzioni civiche e i territori. Tutti i Paesi di successo del mondo, ultimi gli asiatici dalla Corea alla Cina, ci mostrano che questa è una costante del loro percorso.
E' possibile? Come tutte le grandi istituzioni pubbliche nazionali, l'università ha luci e ombre. Un po' troppo spesso si dà rilevanza agli aspetti negativi come è giusto fare - ma si dimenticano quelli positivi. Si trascurano alcuni fatti: che l'investimento complessivo che operiamo sull'università è pari all'1% del Pil contro una media dell'1,5% per i Paesi avanzati; che il numero degli atenei italiani, così come quello dei docenti e degli studenti è molto inferiore agli altri Paesi; che negli ultimi dieci anni il sistema è diventato ancora più piccolo, sottoposto ad una forte cura dimagrante. La realtà è migliore di come talvolta ce la figuriamo.
Il governo di queste grandi istituzioni è naturalmente molto complesso, ricco di aspetti tecnici e di questioni per addetti ai lavori. L'attenzione tende a concentrarsi su temi specifici, sul breve periodo, su cui si discute e si interviene. Un nuovo Ministro viene immediatamente catapultato in questa dimensione, richiesto di fornire pronte risposte. Questo è inevitabile. Ma quelle che contano di più sono le decisioni che riescono a guardare nel futuro; ad innescare quei cambiamenti per propria natura lenti, progressivi che poi dopo anni e anni modificano davvero la situazione. 
Da questo punto di vista non mancano i grandi temi di riflessione: come lo sviluppo di un secondo canale di studi più professionalizzante, sul modello tedesco, a cui il nuovo Ministro è assai sensibile; o come l'organizzazione generale dei corsi e della didattica, per bilanciare al meglio formazione culturale di base e conoscenze tecniche; accrescere capacità e occupabilità dei laureati. Insieme a queste, e ad altre, l'università italiana deve però affrontare anche due grandi questioni del presente e del futuro.
La prima è la questione generazionale. L'università è terribilmente invecchiata: tutti i dati comparati sull'età dei professori lo mostrano. Da più di dieci anni si è fermato il ricambio dei docenti; abbiamo chiuso le porte ad una intera generazione di ricercatori, spesso costringendoli a trasferirsi all'estero. Da un paio d'anni la situazione è un po' meno peggiore, ma la distanza da recuperare è ancora enorme. Per reclutare nuovi docenti servono risorse, questo è ovvio: e non facile. Ma anche regole che favoriscano questo investimento, che lo rendano più lineare, più prevedibile. E così, creando un po' alla volta ma costantemente nuovo opportunità, modifichino le aspettative, riportino un po' alla volta nei giovani italiani e nelle giovani italiane più brillanti fiducia e desiderio di restare. Magari di tornare per chi è fuori e lo desidera.
E veniamo alla questione territoriale, di cui questo giornale si è occupato con attenzione. I Paesi forti si guardi ancora una volta alla Germania hanno un sistema degli atenei molto ben articolato e diffuso. Lì la ripresa dei Lander Orientali si è molto basata negli ultimi vent'anni su un cospicuo investimento nelle sue università, che oggi attraggono studenti anche dall'estero e sostengono le imprese innovative. Così come la forza del Baden Wuttemberg o della Baviera poggia da sempre anche su atenei di grande qualità e prestigio. Le università sono preziose sia nelle realtà più forti che in quelle più deboli. In Italia però, nell'ultimo decennio, gli atenei dei territori meno ricchi, dell'intero centro-Sud, sono stati particolarmente penalizzati. E così oggi, specie nelle regioni più deboli, sono all'opera pericolosi circoli viziosi, con riduzione delle immatricolazioni, emigrazione alla ricerca di migliori contatti con il mondo del lavoro, ricambio dei docenti ancora più ridotto. Circoli viziosi che, nell'interesse dell'intero Paese, vanno arrestati.
Per entrambe queste questioni, quella generazionale e quella territoriale, non serve sperare in bacchette magiche, che nessuno ha. Ma anche grazie ad un dibattito informato, può essere molto utile condividere direzioni e priorità, prendere prime iniziative. E così ricostruire in Italia giorno dopo giorno la fiducia che puntando su istruzione, cultura e conoscenza, e sui più giovani, le cose possono migliorare.


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