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L'austerity colpisce anche i diplomati

Cresce la precarietà tra gli universitari e solo il 14% degli iscritti alla triennale termina i corsi

28/12/2012
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il manifesto

Roberto Ciccarelli
Se la disoccupazione è più alta tra i liceali, meglio scegliere gli istituti tecnici. Così in sintesi il report sui «percorsi di studio e di lavoro dei diplomati» pubblicato dall'Istat: a quattro anni dal diploma, il 45,7% dei diplomati nel 2007 ha un'occupazione stabile, il 5% in meno della precedente rilevazione avvenuta tra il 2004 e il 2007.
La disoccupazione arriva al 34% tra i diplomati del liceo artistico, classico e scientifico, magistrale, mentre è più bassa tra i diplomati tecnici (22,4%) e quelli degli istituti professionali (21,4%). Senza contare che il grado di soddisfazione (il matching, lo chiamano gli esperti) tra il percorso di studi e il lavoro svolto è senz'altro superiore tra i diplomati tecnico-professionali.
Oltre il 40% ha un lavoro fisso, mentre i liceali che lavorano sono meno del 30%. Preferiscono andare all'università, sottolinea l'Istat. Anche se l'esplosione della bolla formativa impedisce ai medici o agli architetti di accedere alla professione, il 94% dei liceali (la maggioranza è donna) continua a iscriversi all'università, mentre l'87% dei tecnici preferisce il lavoro. Questi numeri potrebbero destare l'impressione di una novità epocale: sembra infatti che in Italia gli iscritti ai tecnico-professionali abbiano superato quelli dei licei.
Non è così, e basterebbe citare in questi rapporti i numeri comunicati dal Miur. Nel 2012 il 47,1% dei ragazzi è iscritto ai licei, mentre il 31% ai tecnici e il 21% ai professionali che registrano un aumento dell'1,3%, in particolare negli alberghieri. Sono variazioni minimali che confermano una tendenza storica nella scuola italiana: la maggioranza relativa dei diplomati sono liceali che poi scelgono di continuare gli studi all'università.
Perché allora questi rapporti insistono sulla scelta - reale - di un percorso di studi professionalizzante? Forse per avvalorare la campagna di denigrazione dell'università e i possibili sbocchi occupazionali in una crisi che ha precarizzato anche la formazione terziaria, il ceto medio e il mondo delle professioni ordinistiche e non ordinistiche?
Il rischio di un uso politico dei dati statistici viene rafforzato quando l'Istat si sofferma sui fuoricorso all'università. Solo il 14% degli iscritti alla triennale termina i corsi perché lavora sempre di più con contratti occasionali, mentre quasi il 9% ha interrotto e abbandonato gli studi universitari. Sei ragazzi su 10 proseguono fino alla laurea magistrale. Quelli universitari sono sempre di più studenti-lavoratori che lavorano a termine per propria scelta (il 46,1% dei diplomati del 2007). Invece, tra i diplomati impegnati nel lavoro solo il 21,2% è precario. Le donne sono la maggioranza tra gli «atipici»: oltre il 60% delle diplomate lavora come dipendente con un contratto a termine, svolge un lavoro a progetto o un'attività di tipo occasionale/stagionale, rispetto al 47,5% dei ragazzi. Visto il precariato dilagante si prolunga la permanenza a casa dei genitori.
L'ex ministro del Welfare Elsa Fornero, insieme al suo vice Martone, hanno animato una furibonda campagna contro i giovani «schizzinosi» o gli «sfigati» fuoricorso. Così facendo hanno provato a trasformare il senso di questa realtà sociale seguendo l'esempio di Sacconi che invitava i giovani a riscoprire i lavori «umili» come l'imbianchino o di Brunetta che si scagliava contro la «licealizzazione» della società. Hanno fatto credere che fosse possibile riassorbire il precariato dei diplomati e dei laureati estendendo l'apprendistato - cioè un contratto che riguarda il lavoro esecutivo in azienda rivolto agli adolescenti - fino ai 29 anni.
Soluzioni improvvisate, insinuazioni praticate ad arte che non sono riuscite a scalfire la realtà del tessuto sociale, e produttivo, diviso da una faglia geopolitica che allontana sempre più il Nord dal Sud del paese. Nelle regioni del Mezzogiorno la quota di diplomati disoccupati a quattro anni dal titolo è più che doppia rispetto a quella che si rileva nelle regioni settentrionali (23% rispetto al 10,6% nel Nord-ovest e al 9,1% nel Nord-est). Senza contare che solo il 5% di questi ragazzi riesce a sposarsi e, presumibilmente, ad avere figli. L'importanza della difesa del valore reale e legale di un titolo di studio si misura anche da questi dati che raccontano una realtà che è stata strumentalizzata dalle retoriche anti-intellettualistiche dalla destra, e poi da quelle dei "tecnici" al governo con il placido consenso del centrosinistra.
Anche i dati delle statistiche ufficiali sono stati usati per dissuadere i giovani dalla scelta di un percorso di studi più vicino ai loro interessi personali, scientifici o professionali. Il mantra è sempre lo stesso: inutile mettersi grilli nella testa, finire il liceo per aspirare alla produzione di conoscenza o cultura. E' più semplice strappare un contratto a tempo indeterminato con il diploma.
Pensare che questa sia la soluzione alla crisi occupazionale più grave dalla fine degli anni Novanta è la prova che questo paese ha deciso di rimodellare l'istruzione pubblica alle modeste esigenze di un'impresa in disfacimento che non ha bisogno dei famigerati investimenti in «capitale umano», né dell'indipendenza dei giovani che hanno diritto ad una casa, ad un reddito e all'accesso ad un lavoro


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