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L’antilingua delle linee guida dove il verbo "insegnare" non c’è

Le Linee guida per la Didattica digitale integrata del Ministero dell’istruzione sono un esempio perfetto di quella che Italo Calvino chiama l’antilingua, il modo di scrivere più diffuso nell’amministrazione italiana e una delle ragioni principali della diffidenza dei cittadini verso lo Stato.

25/08/2020
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la Repubblica

Giacomo Papi

Le Linee guida per la Didattica digitale integrata del Ministero dell’istruzione sono un esempio perfetto di quella che Italo Calvino chiama l’antilingua, il modo di scrivere più diffuso nell’amministrazione italiana e una delle ragioni principali della diffidenza dei cittadini verso lo Stato. Dalla lettura e rilettura del documento — che dovrebbe spiegare a 800 mila insegnanti, 8 milioni di studenti e 16 di genitori come avverranno le lezioni online e in classe «in un equilibrato bilanciamento tra attività sincrone e asincrone» — si intuisce soltanto che il Ministero si rimette alla buona volontà e alla fantasia di professori e presidi. L’antilingua ha lo scopo di tenere a distanza invece di avvicinare, confondere invece di chiarire, per questo sostituisce le parole di uso quotidiano con perifrasi e termini arcaici e organizza le frasi in sistemi contorti.

Rispetto al Piano scuola presentato a fine giugno — che era scritto bene, a parte uno spettacoloso riferimento alle «rime buccali degli alunni », cioè alle bocche — Le linee guida non guidano niente. Per qualche misteriosa ragione, per esempio, il Lato Oscuro della Sintassi ministeriale scrive: «Le istituzioni scolastiche avviano una rilevazione di fabbisogno di strumentazione tecnologica e connettività», invece di valutano le tecnologie e la connessione necessarie. Nell’antilingua la sistematica manomissione della sintassi si accompagna a quella del lessico. La scelta delle parole rivela, però, sempre, l’ideologia di chi scrive. Nel documento la didattica si «eroga» come fosse acqua o gas da riversare nelle menti vuote degli studenti. Sono invece quasi assenti verbi come «insegnare» e «imparare». Abbandonano gli «alunni in parola» e «fragili », giudicati dalla «funzione docimologica » dei docenti. A complicare le cose si aggiungono «turnazioni che contemplino alternanza tra presenza e distanza », «setting "d’aula" virtuale», «interferenze di eventuali distrattori», «agorà di confronto». Anche l’uso dell’inglese è inutilmente abbondante — flipped classroom, know how, future labs, team dei docenti — come quello degli acronimi — Pnsd, Ddi, Byod — che costringono i lettori normali a cercare su Google.

Per evitare l’antilingua basterebbe rispettare quattro semplici indicazioni: 1 Tra una parola conosciuta e una in disuso o tecnica, scegliere sempre la prima a meno di non essere sicuri che la seconda sia indispensabile.

2 Limitare l’uso di subordinate e adottare di preferenza la costruzione classica soggetto-predicato-complemento.

3 Evitare di appesantire il testo con riferimenti a Decreti, Leggi, Commi che possono tranquillamente comparire nelle note a piè di pagina (sono state inventate per questo).

4 Permettere a chi scrive di firmare il documento in modo da assumersene la responsabilità ed, eventualmente, il merito.

Nel suo libro Come non scrivere, Claudio Giunta spiega che in Italia il ricorso all’antilingua nei testi ufficiali ha ragioni storiche: l’assenza di una lingua parlata nazionale spinse l’amministrazione a prendere a modello testi letterari e scientifici. È certamente così, ma sono convinto che la ragione principale sia politica: esattamente come i call center automatici, la difficoltà impedisce di fare domande e di ottenere risposte perché a protestare se non si capisce qualcosa si rischia sempre di fare la figura degli scemi.

Un paio di anni fa il Ministero della Salute raccomandò a tutte le Regioni italiane di invitare i medici a scrivere le ricette in modo leggibile. Estendere l’ideale della chiarezza alla scrittura dell’amministrazione pubblica sarebbe una misura di civiltà maggiore. Tra le misure di igiene e profilassi più urgenti, anche contro l’epidemia, c’è il dovere di scrivere in modo chiaro e il diritto di capire. L’Italia è popolata di scrittori e scrittrici che faticano a sopravvivere. È una delle poche categorie che non ha mai chiesto sussidi. Potrebbero federarsi in una Gilda di Scribi Chiarificatori ed essere assoldati dal ministro della Cultura Dario Franceschini, che è anche romanziere, per un lavoro socialmente utilissimo: contribuire, insegnando o scrivendo, a migliorare la chiarezza dei testi ufficiali e, quindi, il rapporto tra cittadini e Stato. Con un’avvertenza: meglio scegliere quelli meno aulici e sperimentali.