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L'abbandono della ricerca

Realizzare un vero diritto allo studio, migliorare e arricchire biblioteche, aule e laboratori, costruire un governo dell’università sottratto alle opposte derive dell’accentramento burocratico e della chiusura corporativa, introdurre forme di reclutamento rispettose del valore reale dei ricercatori; e intanto azzerare l’operato e le strutture dell’Agenzia Nazionale della valutazione (Anvur).

11/01/2013
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la Repubblica

Adriano Prosperi

Realizzare un vero diritto allo studio, migliorare e arricchire biblioteche, aule e laboratori, costruire un governo dell’università sottratto alle opposte derive dell’accentramento burocratico e della chiusura corporativa, introdurre forme di reclutamento rispettose del valore reale dei ricercatori; e intanto azzerare l’operato e le strutture dell’Agenzia Nazionale della valutazione (Anvur). Questo è quanto chiede l’ultimo in ordine di tempo e più urgente appello che viene dal mondo degli studi e dell’università (primi firmatari A. Arienzo e P. Bevilacqua). Dubitiamo che siano in molti in Italia a sapere che cosa sia l’Anvur e più in generale che cosa accada in un mondo sempre più emarginato e soffocato.
Le aule universitarie appaiono nel senso comune come un luogo desueto, che non promette niente di buono a chi vi si avventura, quasi come quelle scuole materne e dell’obbligo dove gli allievi e le famiglie debbono preoccuparsi di portare i materiali essenziali per il funzionamento, così come accadeva nel dopoguerra: allora si portava la legna per la stufa, oggi quella che manca è la carta igienica. Uno stesso nodo continua a legare in Italia la scuola all’università, l’insegnamento alla ricerca; insieme sono vissute, insieme stanno morendo. Oggi sotto elezioni tutti a parole dichiarano che senza ricerca non ci può essere progresso civile né crescita economica. Ma le prospettive future sono poco chiare e poco promettenti. Eppure questo è il tempo di precisare e chiarire dove vogliamo che si orienti il governo futuro della ricerca. Bisogna approfittare dell’occasione delle elezioni e di quel tanto di comunicazione che si è riaperta tra cittadini e partiti grazie alle primarie di Bersani. Oggi, nonostante gli appelli reiterati e appassionati del presidente Napolitano, nei programmi elettorali si stenta a trovare qualcosa di più di promesse generiche. E fa impressione che quello che è stato chiamato il governo dei professori, non contento del bilancio assai deludente della sua azione in questo ambito, dichiari ora col programma Monti di voler procedere con decisione su di una strada che ha raccolto gravi e fondate critiche. Mario Ricciardi ha osservato (su «Roars») che l’agenda Monti sembra scritta diversi anni fa da qualcuno che di recente non si è occupato della materia. Altri hanno sottolineato che, nel generale riconoscimento della necessità urgentissima di aumentare gli investimenti per l’università e la ricerca, Monti ha segnalato di volerlo fare ma solo nel settore privato. Ma ha trascurato di dire che sotto il suo governo si è assistito al disastro della trasformazione del sistema della valutazione della ricerca (con l’agenzia apposita, l’Anvur) nata in teoria per orientare la distribuzione delle risorse alle università migliori e diventata oggi quel moloch statalista di cui Sabino Cassese ha analizzato lucidamente su questo giornale le aberrazioni presenti e future. E comunque sarebbe ingiusto fare carico esclusivo al governo Monti di un coacervo di idee neo-liberiste che risale a molto prima, non è nato in Italia e qui ha trovato negli anni i suoi seguaci sia a destra che a sinistra dell’arco parlamentare. Per trovarne l’origine dobbiamo risalire al modello di tutti i neo-liberismi: l’Inghilterra della Thatcher.
Ci sono buone ragioni per pensare che l’odio del neo-liberismo verso la libertà della ricerca sia
nato dall’antipatia personale di Margareth Thatcher per l’ambiente oxoniense: secondo quanto scrisse tempo fa Simon Head sulla «New York Review of Books», la figlia del droghiere di Grantham non sopportava l’atteggiamento di sovrano disprezzo degli accademici verso i valori della «middle class». Era intollerabile per lei che il mondo dell’eccellenza accademica foraggiato coi soldi pubblici passasse il tempo a denigrare coloro che producevano ricchezza. E fu per questo che la dama di ferro marciò con decisione verso l’abolizione di quei privilegi e la costruzione di un sistema universitario dove il prodotto utile del lavoro universitario potesse essere misurato e valutato allo stesso modo di quello delle officine e degli allevamenti di bestiame. Nacque così la struttura dell’Audit Commission, un sistema di controllo burocratico che doveva permettere a chi pagava le tasse di vedere il prodotto dell’investimento in ricerca e confrontarlo con altri prodotti.
Era una svolta storica: «l’Utilità » era la nuova sovrana che prendeva il posto dell’antica regina, la ricerca fine a se stessa. Oggi tutti possono misurare i risultati di una svolta che non trovò nessuna resistenza nel deserto di idee lasciato dal crollo del muro di Berlino: da Luigi Berlinguer a Mariastella Gelmini troviamo solo variazioni sul tema dell’utilità e della redditività. Si va dalle tre «c» del governo Prodi (competenza, conoscenza, capacità) alle tre «i» della riforma Moratti (inglese, informatica, impresa): cambia il colore della confezione ma il prodotto è sempre lo stesso. E forse oggi è venuto il momento di riflettere finalmente su di un fatto così macroscopico che nessuno lo vede: l’unica vera legge che si può ricavare da uno sguardo lungo sul passato delle grandi rivoluzioni scientifiche dell’Occidente è quella del legame tra caso e libertà. Le maggiori scoperte sono nate casualmente dalle menti di chi seguiva l’esclusiva bussola della libertà intellettuale e non si preoccupava di quale potesse essere il prodotto utile, la maledetta «ricaduta» (occupazionale, produttivistica, turistica) di ciò che attirava la sua mente. Sistematizzare e moltiplicare quella casualità si è imposto da allora come il principio primo dell’Università come luogo della ricerca e dell’insegnamento. E per questo nei laboratori e nelle biblioteche si è fatta strada la regola di offrire e di chiedere soprattutto una cosa: una autentica libertà intellettuale. Niente altro che questa libertà vanno cercando oggi le migliori menti del mondo italiano degli studi. L’unico risultato che le misure burocratiche di governi governati dal dogma dell’utilità è stato quello di una bilancia dello scambio intellettuale in crescente passivo: intere generazioni di giovani di qualità hanno finito col lasciare il nostro Paese per recarsi là dove si garantiva loro non la ricchezza ma la possibilità di svolgere liberamente quegli studi che qui sono gravati dal peso di una soffocante burocrazia statale alleata ai cosiddetti «baroni», povera gente cresciuta servendo e incapace di fare a meno di servi. L’esempio di un personaggio che tutti gli italiani hanno potuto conoscere e ammirare, quello di Rita Levi-Montalcini, una studiosa formatasi in Italia ma che solo oltre Oceano ha trovato la possibilità di fare il suo lavoro, dovrebbe insegnarci a evitare gli errori del passato invece di aggravarli con le scelte sbagliate del presente.
 


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