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Fuga dall'istruzione professionale di Pino Patroncini "In tutte le scuole, l'opposizione al trasferimento alle Regioni dell'istruzione professionale è massiccia e totale". La categoricità di q...

05/04/2002
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Kataweb

Fuga dall'istruzione professionale
di Pino Patroncini

"In tutte le scuole, l'opposizione al trasferimento alle Regioni dell'istruzione professionale è massiccia e totale". La categoricità di questa affermazione non lascia dubbi. Ha la stessa forza delle affermazioni che, all'inizio del XX secolo, Giustino Fortunato metteva nelle sue inchieste sul Meridione d'Italia e con esso sulla sua scuola, così decisive per determinare, allora, la statalizzazione della scuola italiana. E lascia ancor meno dubbi se si pensa che a pronunciarle non è un oppositore di questo processo, ma Norberto Bottani, ricercatore dell'Ocse, ingaggiato dal ministro Moratti per coordinare l'aspetto relativo all'istruzione professionale dell'inchiesta che doveva supportare gli Stati generali dell'istruzione del dicembre scorso.

Le affermazioni di Bottani sono state presto confermate dai fatti: qua e là, da Milano a Frosinone, da Roma a Genova, hanno cominciato a sorgere iniziative e comitati che riuniscono docenti e presidi degli istituti professionali i quali, a prescindere dalle appartenenze politiche e sindacali, intendono opporsi al trasferimento alle Regioni di questo settore della scuola statale che riguarda oltre 500.000 alunni, 60.000 insegnanti e circa 15.000 ausiliari, tecnici e amministrativi.
E a nulla sono valse le rassicurazioni del Ministero che promette tempi lunghi, ma indefiniti, per portare a regime l'operazione.
La riprova è stato l'afflusso di personale dell'istruzione professionale nelle ultime tornate dei trasferimenti e dei passaggi di cattedra.
Chi può se ne va: verso l'istruzione tecnica, più affine per discipline, o verso i licei, coloro i quali possiedono una seconda abilitazione.
Primo effetto: il prossimo anno l'istruzione professionale vedrà una più alta concentrazione di personale giovane e precario.

Che cosa muove questo fenomeno? Non è solo la paura di trattamenti economici peggiori: anzi a ben vedere, da questo punto di vista, in alcuni casi si potrebbero avere dei miglioramenti. Anche se le recenti esperienze del rinnovo contrattuale della Formazione professionale, convenzionata con le Regioni e in ritardo da quattro anni, non lasciano ben sperare.
Ma c'è soprattutto l'incertezza del nuovo rapporto di lavoro: si resterà sempre insegnanti, cosa che per molti rappresenta una scelta di vita?
Si potranno avere i trasferimenti verso le regioni d'origine, come sotto lo Stato?
Le Regioni gestiranno in proprio il sistema o lo devolveranno a loro volta a Province, Comuni, Enti convenzionati o Consorzi misti?
La sicurezza del sistema sarà garantita?

Quest'ultima domanda è interessante: infatti al primitivo entusiasmo da parte delle Regioni, ha fatto seguito in molti casi qualche paura anche da parte delle stesse amministrazioni. Non tutta l'Italia conosce le esperienze egregie di Emilia, Lombardia, Trentino o Piemonte: vi sono Regioni che hanno già chiuso la Formazione professionale di loro competenza o che si apprestano a farlo. Lo stesso settore della Formazione professionale, fragile al confronto, invece che essere elevato al rango di scuola, rischia di essere schiantato da un colosso come la Istruzione professionale.

Questa Formazione professionale, anch'essa troppo scolasticizzata, denuncia ancora Bottani, rischia di essere anch'essa troppo istruzione e assai poco formazione, così come l'esigenza di legare meglio scuola e lavoro rischia comunque di venire frustrata in un ambiente ancor più scolastico quale è quello dell'Istruzione professionale.

Ma forse proprio qui sta l'equivoco: nell'affrontare come problema istituzionale - il ruolo delle Regioni nella formazione professionale è sancito dalla Costituzione e il trasferimento dell'istruzione professionale è previsto dalla cosiddetta legge sul federalismo - un problema che è soprattutto didattico;
nell'affrontare come problema organizzativo, di settore un problema che è soprattutto di funzione.

L'equivoco è nei due termini "formazione" e "professionale". Non vi è dubbio che quando si parla di formazione si pensa soprattutto a quella professionale, ma è anche vero, al contrario, che valorizzare gli aspetti formativi è diventata un'esigenza trasversale a tutta la scuola. Se la parola istruzione evoca saperi e nozioni, la parola formazione evoca piuttosto competenze, abilità e saper fare. E l'esigenza di praticità è sottintesa a tre obiettivi: certamente orientare e legare lo studio al lavoro e capitalizzare crediti formativi per coloro che non portano a termine percorsi lunghi, ma anche rimotivare in continuazione allo studio.

Parimenti nell'organizzazione della scuola italiana ci portiamo dietro una tripartizione quasi castale che non ha eguali in Europa, dove si preferisce suddividere l'istruzione in istruzione generale e istruzione professionale, e quest'ultima altrove comprende anche quella che noi chiamiamo tecnica.
Al contrario nell'immaginario collettivo degli italiani a licei, istituti tecnici e istituti professionali ha corrisposto una tripartizione in classe dirigente, classi medie tecnico-impiegatizie e classe operaia. Una tripartizione che non ha retto allo sviluppo storico, sociale ed economico del nostro paese. E, in corrispondenza con l'emancipazione della società italiana, all'interno della scuola l'evoluzione è stata scandita proprio dall'istruzione professionale.

Nata sotto la veste di filantropiche scuole d'arte e mestieri, passata attraverso la giurisdizione del ministero del Lavoro, finalmente approdata alla fine degli anni cinquanta al rango di scuola con l'assunzione di responsabilità da parte del ministero della Pubblica istruzione, dopo un lungo periodo di provvisorietà è diventata, nel 1992, l'unico settore di scuola secondaria superiore ad essere globalmente riformato secondo quelle che all'epoca sembravano le direttrici privilegiate: nuovi programmi (i primi nella sua storia, per la verità), un biennio iniziale unitario, comprensivo di un'area didattico-disciplinare flessibile, il tradizionale titolo di qualifica al terzo anno, poi un biennio terminale che portava all'esame di Stato, praticamente una maturità tecnica, però caratterizzata dall'integrazione con la Formazione professionale.
Ma oggi i ragionamenti che si sentono fare sembrano contraddire proprio questa emancipazione dall'addestramento alla scuola e il ricorso al termine "formazione" tradisce più l'esigenza di condannare a un certo destino lavorativo i settori più fragili della scuola che, guarda caso, corrispondono ancora a quelli più poveri della società, che non la preoccupazione per la scarsa versatilità professionale dell'insieme del sistema.

Il passaggio alle Regioni accentua questa tendenza, quasi sanzionandone anche istituzionalmente il carattere di segregazione. Ed è questo che si sente più pesantemente tra gli operatori dell'istruzione
professionale.
Recuperare l'integrazione tra i due momenti, quello "istruttivo" e quello "formativo" è decisivo, ma questo era il percorso su cui l'istruzione professionale era orientata prima. La scelta di segregarla al resto della scuola ha rotto questo processo. Tornare indietro rispetto a questa rottura rappresenta una scelta ineludibile.
Pino Patroncini
Cgil Scuola


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