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Istruzione G. Israel: «Un ente di valutazione deve essere una casa di vetro»

Intervista a Giorgio Israel, componente del comitato di selezione per la presidenza INVALSI

20/02/2014
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ROARS

La designazione del nuovo Presidente Invalsi ha creato molte polemiche. Cosa ne pensa?

La designazione ne ha create meno di quante ne abbia create la costituzione del Comitato di selezione delle candidature a Presidente che è stata accolta da una raffica di articoli denigratori basati su un giudizio pregiudiziale dei suoi componenti, su un fuoco di sbarramento intensissimo con la parola d’ordine: «Non provatevi a cambiare direzione di un millimetro o crolla l’Italia». Sono usciti articoli, interviste, è stato promossa anche una raccolta di firme (che è stata un mezzo flop) sempre all’insegna del principio che qualsiasi discussione si dovesse fare sulla valutazione doveva servire a convincere gli incerti dell’assoluta bontà delle ricette finora seguite, che gli unici competenti a occuparsi di scuola sono gli statistici e gli economisti della scuola e gli altri si debbono allineare e basta. Il tentativo di intimidazione è giunto al punto di ricorrere a parole pesanti (“revenants”) e, se posso togliermi un sassolino dalla scarpa, trovo particolarmente vergognoso che sul sito dell’Adi si sia insinuato che ero stato nominato “in quota centro-destra”. Chi mi conosce sa che tra i miei cento difetti non c’è quello di essere il cameriere di nessuno e basterebbe rivolgersi all’ex-ministro Gelmini per avere una testimonianza di quanto io sia un uomo di paglia del centro-destra. Dopo la nomina della prof. Anna Maria Ajello la sinfonia è ripresa sulla stessa tonalità, sempre intimando a non osare un sia pur minimo cambiamento di orientamento.

Lei e Vertecchi, in particolare, siete stati velatamente accusati di voler ridimensionare l’Istituto. Come replica?

A parte il fatto che non c’è stato alcun “cattivo” nel Comitato, ed anzi il lavoro si è svolto in modo armonico, con pochi dissensi sempre ricondotti nell’alveo di discussioni argomentate e pacate, l’accusa è ridicola. Non ce n’era né l’intenzione né la possibilità. Se non vogliamo nascondere la testa dentro la sabbia, occorre prendere atto che le politiche dell’Invalsi degli ultimi anni hanno suscitato molte discussioni e valutazioni divergenti, in uno spettro che va dall’adesione incondizionata alla critica più severa. Esiste un diffuso malessere nel mondo della scuola su queste tematiche: può avere cattive motivazioni, in alcuni casi, come ve ne sono di cattive fra coloro che sostengono incondizionatamente la politica dei test standardizzati. Non siamo in regime di dittatura e gli insegnanti non possono essere considerati come un gregge da irregimentare, meri esecutori di precetti decisi da un gruppo di persone che rifiutano categoricamente di accettare qualsiasi confronto. Una cosa su cui, non io e Vertecchi, ma tutto il Comitato era perfettamente d’accordo è che è giunto il momento di rasserenare gli animi, e quindi di stabilire un rapporto fecondo tra Invalsi e mondo della scuola. Trovo particolarmente appropriate le parole del nuovo presidente Ajello quando ha detto che l’esperienza fatta non va dispersa ma ha richiamato una delle migliori frasi dell’ex-presidente Cipollone: «L’Invalsi deve fornire misurazioni e non valutazione. E deve fermarsi sempre sulla soglia delle scuole». Ora, lasciando da parte il delicato tema di cosa sia “misurazione”, giudichi chi è in buona fede se l’Invalsi si sia fermato sulla soglia delle scuole. Il “teaching to the test” sta dilagando e la prova Invalsi che fa media all’esame di terza media costituisce la più patente intrusione nella valutazione, oltre a essere un errore concettuale da matita blu, perché l’ente finisce con il misurare ciò che ha alterato con le sue valutazioni. Tutto ciò deve essere rimesso in discussione apertamente ed è da confidare che il nuovo presidente sia una persona con questa sensibilità, che poi non è altro che assenza di dogmatismo. Qui non si tratta di ridimensionare niente.

Come si è giunti alla designazione dell’attuale Presidente?

Seguendo due criteri ispirati al buon senso e alla ragione. Il primo è quello della competenza e della conoscenza profonda del sistema dell’istruzione. Occorre avere dei lavori che mostrino tali qualità. Un Nobel per l’economia o per la fisica non per questo è detto che sia un buon presidente dell’Invalsi. Non si vogliono trascurare i lavori nel campo dell’ “economia della scuola” o della statistica, ma questi non bastano. Uno statistico che abbia lavorato in modo puramente astratto, ignorando persino i programmi scolastici e non avendo mai messo piede in una scuola non ha competenze sufficienti. La costruzione di correlazioni statistiche del tutto disinteressate ai contenuti ed alle modalità dell’insegnamento da sola è inadeguata a confrontarsi con i problemi del sistema. Alcune delle candidature avevano limiti evidenti in questo senso. Il secondo requisito è quello già illustrato al punto precedente: un presidente adatto al momento attuale deve avere apertura culturale, disponibilità al dibattito, e non deve concepire la valutazione come un regime punitivo; se non altro perché lui stesso non può essere esente da valutazione e uno dei peccati principali della gestione recente dell’Invalsi è stato proprio questo: far credere di disporre di ricette indiscutibili e trattare chi non le condivide come un fannullone, un oppositore di principio, uno che vuol tirare a campare. I personaggi di questo genere, purtroppo, sono presenti ovunque e una valutazione che non diventi un processo di confronto culturale che permette ai migliori di emergere e di imporre i loro standard, è sbagliata in partenza, una cosa da paese totalitario, destinata a un sicuro fallimento e fonte di sperpero di denaro pubblico.

In un articolo sul Sole24Ore, Luisa Ribolzi, componente del direttivo ANVUR accomuna i destini dell’Agenzia e di Invalsi e contrappone valutazione quantitativa e qualitativa. Orientarsi verso quest’ultima, in particolare, “allontanandosi dai test” vorrebbe dire allontanarsi dal quadro europeo di riferimento. Cosa ne pensa?

Qui vi sarebbero da dire molte cose. In primo luogo, quell’articolo è un modello dell’atteggiamento che descrivevo prima: se non vi adeguate e se osate cambiare anche di pochissimo il modello, fate un disastro e, soprattutto, vi dimostrate per quel che siete, dei nullafacenti, gente che vuol “tirare a campare” e che vuol soltanto opporsi. È assolutamente comico che chi considera un delitto di lesa maestà che si metta in discussione il proprio operato accusi chi critica di non voler mettere in discussione il proprio operato. Lascio a chi legge la definizione di un simile modo di ragionare con il quale si pretende di governare il sistema italiano dell’istruzione. La contrapposizione tra valutazione quantitativa e qualitativa, poi, è assurda: neanche i fautori della prima si sognano di fare una simile contrapposizione. Piuttosto sostengono che la valutazione qualitativa può essere riassorbita da quella quantitativa, come accade con l’idea che la bibliometria permetta di stabilire la qualità di un articolo scientifico. Ma proprio qui sta la questione controversa, su cui esiste una letteratura ormai sterminata!… Far finta che il problema non esista non è serio. Tantomeno lo è cavarsela con il principio d’autorità: “Europa dixit”. E anche se così fosse? Siamo nati per avere una mente libera o per eseguire i dettati dell’eurocrazia? Che genere di professori, intellettuali e uomini di cultura sarebbero quelli che si richiamano a un simile principio? E poi, parlare così in un momento in cui da ogni parte vengono critiche a certe rigidità della costruzione europea e ai rischi che esse stimolino la crescita dell’euroscetticismo e dei populismi, non pare molto lungimirante. Forse anche il nostro presidente della Repubblica si è allontanato dal quadro europeo di riferimento?

Vorrei però dedicare un po’ di attenzione alle radici del dogmatismo che si è installato nei nostri enti di valutazione, Invalsi o Anvur che sia. Mi sembra che sia dovuto alla compresenza di tecnici di formazione statistica ed econometrica che sono molto chiusi nel loro paradigma e nella credenza acritica nell’esportabilità di certi metodi al contesto della problematica dell’istruzione, e di persone che non riescono neanche a seguire tecnicamente le loro elaborazioni ma si affidano ciecamente alla loro autorità. Lo si vede chiaramente nei (rari) confronti pubblici: i tecnici si chiudono nella loro modellistica considerando fuori discussione la sua validità e gli altri rinviano alla loro autorità. Un caso tipico è dato dal riferimento al modello di Rasch che viene “sparato” in modo intimidatorio come se fosse il quinto segreto di Fatima e che è una colonna dell’Invalsi. Chi s’informi un minimo sa che esiste un’ampia letteratura critica nei confronti del modello di Rasch. Ma questo viene volutamente nascosto: ci si richiama a quel modello come un modo indiscutibile di fornire valutazione “oggettive”, e chi non è d’accordo è un ignorante. Ci sarebbero tante cose da dire. Per esempio che quel modello, come tanti, è unidimensionale e questo è un limite enorme che è al centro di articoli fortemente critici. Va anche ricordato che il modello di Rasch non è in grado stimare i parametri di soggetti che rispondano a tutte le domande o a nessuna. Infatti, nel primo caso si avrebbe una odds ratio con denominatore uguale a zero e nel secondo caso una odds ratio uguale a zero. Quindi, soggetti del genere (totalmente ignoranti o che sanno tutto) non possono esistere. Ci si giustifica dicendo che tali casi sono irrilevanti e che, nel caso di un numero di item molto elevato, il modello regge. Ma gli item non sono mai numerosi e quindi il modello traballa. Come ha osservato il prof. Franco Ghione nel corso di un dibattito al Liceo Mamiani ciò significa che si tiene conto soltanto della velocità, ovvero della quantità delle risposte esatte date in un tempo dato. Non interessa né la qualità né la quantità delle risposte esatte in sé, ma la velocità con cui si da il massimo numero di risposte esatte. Questo indica una visione dell’apprendimento francamente inaccettabile.

Lascia poi di sasso la leggerezza con cui si parla di misurazione asserendo che l’approccio nell’ambito dell’istruzione ha lo stesso livello di oggettività della misurazione in fisica. Ma la fisica deriva tutte le sue misure da un piccolo numero di misure fondamentali che obbediscono a un criterio di “concatenazione”, per cui la misura della concatenazione tra due oggetti misurabili deve essere la somma della loro misura. Questa proprietà additiva non è realizzabile nelle scienze sociali e nelle scienze educative e quindi occorre ricorrere a misure implicite (cfr. E. Rogora, “Valutare e scegliere”), in particolare introducendo il concetto di “variabile latente”. Chi conosca il dibattito che si svolse nella fisica del Novecento attorno alla questione delle variabili nascoste non può non sorridere di fronte alla leggerezza con cui si considera non problematico un simile concetto. Ma lasciamo perdere. Il fatto cruciale è che per realizzare misure implicite nelle scienze non fisiche occorre introdurre un modello matematico intermedio. Qualsiasi persona sensata capisce che questa mediazione da senso all’operazione di “misurazione” solo se il modello è in accordo con i dati empirici, altrimenti tutto è privo di senso. Ma questa difficoltà viene elusa dai “tecnici” con un’audacia sconcertante. Per esempio, si dice che «il modello di Rasch non può essere applicato secondo una modalità meramente esplorativa, ovvero di verifica ex post se il modello si adatta ai dati empirici, ma è necessario che il modello sia costruito secondo modalità tali che i dati da esso forniti si conformino, con una ragionevole approssimazione, al modello stesso. Ciò significa che il modello deve essere costruito in modo tale che l’insieme delle domande che lo compongono e la loro successione sia tale da rispecchiare anche sul piano sostantivo [sic!] dell’ambito disciplinare-cognitivo indagato le assunzioni del modello di Rasch». (P. Falzetti, R. Ricci, “I modelli della famiglia di Rasch nelle ricerche sugli apprendimenti”, Rivista dell’UMI, 2011: 309.335). In parole povere, il modello è autoreferenziale e sono i dati a doversi conformare al modello… È un piccolo esempio che spiega l’atteggiamento di molti di coloro che ci bombardano con i discorsi sulle valutazioni “oggettive”. La loro idea di oggettività è puramente formale e definitoria e non ha nulla a che fare con l’oggettività sostanziale. Ci si chiude ermeticamente nel modello, dichiarato “oggettivo” in quanto corrispondente a una definizione formale di oggettività e tutto ciò che non si adegua ad esso semplicemente non esiste, o meglio deve adeguarsi ad esso. E questo sarebbe un approccio scientifico? Ho esperienza da molto tempo nel campo della modellistica matematica delle scienze sociali per non sapere che gran parte di essa è costituita da costruzioni autoreferenziali prive di qualsiasi valore salvo la coerenza logica interna. Qui ci troviamo esattamente in questa situazione.

Quale ruolo auspica per Invalsi nel prossimo futuro?

Mi pare di avere già risposto. L’ente deve proseguire con un lavoro di stima delle performances del sistema italiano dell’istruzione, riflettendo criticamente sui metodi usati, non escludendo metodi campionari e fermandosi sulla soglia delle scuole per quanto riguarda la valutazione. Questo significa che l’ente deve anche sviluppare ricerca didattica in collaborazione col mondo della scuola. Tuttavia, le modalità di queste attività debbono essere accuratamente definite sul piano istituzionale, soggette a regole trasparenti. La scelta dei consulenti Invalsi nel recente passato non ha seguito affatto questi principi di trasparenza e di controllo incrociato. Per esempio, mi piacerebbe sapere chi e come ha scelto coloro che hanno prodotto i test di matematica, su molti dei quali siamo in tanti ad avere le più grandi perplessità. Nessun ente come un ente di valutazione deve essere una casa di vetro.

E per ANVUR?

Purtroppo, l’Anvur ha prodotto dei guasti nell’università molto più gravi di quelli dell’Invalsi e che non so se potranno essere corretti. Roars li ha denunciati sistematicamente e non vedo cosa vi sia nulla da aggiungere. Anche qui la chiusura nei confronti delle numerose e autorevoli voci critiche che vengono dall’estero circa i disastri della bibliometria sono stati ignorati con un dogmatismo degno di miglior causa. Sarebbe interessante esplorare perché il mondo universitario si è rivelato meno attento e critico di quello della scuola. Azzarderei l’ipotesi che l’enorme gap generazionale indotto dalla sciagurata gestione del reclutamento abbia prodotto una frattura incolmabile: la stragrande maggioranza dei docenti universitari che sono andati o stanno per andare in pensione non si riconoscono in questa nuova università delle scartoffie e della burocrazia dove, tra poco, come si diceva paradossalmente, chi verrà sorpreso a scambiarsi lavori scientifici o a discutere di questioni scientifiche verrà deferito e sospeso dalle funzioni… Ma i docenti più giovani non hanno conosciuto altro che questa università – la trasmissione di conoscenze, esperienze e tradizioni con i “maestri” si è interrotta – e parecchi di loro si adattano a questo andazzo in fin dei conti più pigro, facile e che offre innumerevoli scappatoie per figurare come “produttivo”.


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