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Io, docente pensionato. Al mio posto? Non un giovane

Giulio Ferroni

09/11/2013
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l'Unità

QUEST’ANNO (PER LA PRECISIONE POCHI GIORNI FA, IL 1 NOVEMBRE) SONO ANDATO in pensione, dopo aver superato i settant’anni di età: e con me nella mia Facoltà sono andati in pensione altri tredici colleghi e docenti del mio stesso ruolo e altri numerosi di ruoli diversi: sarebbe però possibile, per i professori ordinari (ma solo con determinati requisiti), rimanere in servizio ancora per altri ventiquattro mesi. Mi sembra comunque che questi casi di permanenza siano poco numerosi (almeno nel mio Ateneo, che è la Sapienza di Roma). So poi anche che non mancano colleghi che, come suggerisce il ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza, continuano ad insegnare gratis dopo il pensionamento: e certo è un titolo di merito, come lo sarebbe l’offerta della propria biblioteca alla propria università (anche se spesso le università non sono attrezzate per sistemate quei libri). È anche vero peraltro che si può sentire il pensionamento come una sorta di liberazione: dalla burocratizzazione che sta uccidendo la vitalità delle nostre università, dagli artificiosi meccanismi che sono stati messi in opera negli ultimi anni e che prevaricano in modo sempre più invadente sulla didattica e sulla ricerca (basta pensare al processo di valutazione, all’assoluta inaffidabilità del metodo e dei dati che ne sono scaturiti). Nella situazione attuale, d’altra parte, la partenza dei «vecchi» raramente viene ad avere come corrispettivo la trionfale avanzata dei «giovani»: dati i vincoli finanziari, all’università la «rottamazione» ha come esito la desertificazione, il progressivo svuotamento. Me ne sarei andato via anche prima dei settant’anni se avessi saputo che al mio posto poteva essere chiamato qualche valido giovane studioso. Vecchi o giovani, l’università rischia il collasso: e questa è un’altra delle ragioni della depressione di questo paese; e a proposito di vecchi e giovani, quest’anno non può non venire in mente il quadro desolato disegnato da Pirandello nel romanzo intitolato proprio «I vecchi e i giovani» (pubblicato proprio 100 anni fa, nel 1913). A me sembra che sarebbe il caso di scrollarsi di dosso la contrapposizione giovani/ vecchi: favorita e promossa dai media, essa fa audience, ma rende ancora più vecchi e decrepiti e non produce nessun posto di lavoro per i giovani. Quello che posso dire al ministro e che mi sento di suggerire è di pensare di più ai contenuti, a quello che i giovani e i vecchi possono ancora fare per uscire dalla cappa che ci opprime. Ma lo dice qui uno che è ormai vecchio e pensionato, che comunque sa di non essere stato mai un vero «barone».