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Invalsi, nelle aule uno sberleffo che fa danni

Alessandro D'Avenia

07/05/2016
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La Stampa

Ieri pomeriggio ho corretto le prove Invalsi con i miei colleghi, tra l’altro di ragazzi che non sono miei alunni. Non un’attività particolarmente gratificante data la meccanicità dell’operazione, ma eravamo coinvolti tutti e organizzati molto bene, a coppie e con un sistema di turni efficace, così è stato sufficiente lavorare un’ora e mezza condendo il tutto di sano umorismo scolastico. Di contro ho saputo di colleghi che si sono rifiutati di correggere le prove o hanno spinto i ragazzi a boicottarle, come testimoniano sui social le foto di prove con improperi, disegni o amenità consimili. Ho provato rabbia e tristezza.  

Siamo d’accordo sul fatto che questo tipo di prove non siano la maniera migliore di valutare il livello degli apprendimenti, ma sono test recenti e senz’altro migliorabili, normalmente somministrati ai ragazzi nelle scuole europee (dove però le valutazioni sono spesso affidate a personale addetto e non ai docenti, proprio per evitare interpretazioni sommarie o compiacenti). Un giorno questi ragazzi si troveranno a essere valutati accanto ad un giovane svedese, francese, spagnolo, perché il lavoro non è più sotto casa e, qualora lo fosse, lo vorranno anche lo svedese, il francese e lo spagnolo (e non sarà una barzelletta in cui c’è un italiano, uno svedese...): non si potrà rispondere con sberleffi alla possibilità di avere un futuro. Dovremmo aiutare i ragazzi a desiderare di esser esaminati e valutati come lo saranno un giorno: potevano essere sottoposti magari ad un altro tipo di lavoro, ritenuto utile dagli insegnanti che li hanno convinti a non prendere sul serio le prove. Dovremmo educarli a chiedere di essere preparati ad un mondo sempre più complesso e globale, non deresponsabilizzandoli: per un tredicenne un adulto che permette di reagire con una pernacchia a una prova ufficiale è un compagno di giochi non una guida. Io li educherei sin da piccoli a boicottare gli insegnanti senza qualità, che non fanno lezione, non si preparano, ripetono la stessa solfa, non sanno tenerli, sparlano dei colleghi, ignorano i nomi dei ragazzi nei colloqui, parlano in dialetto (e insegnano italiano): spettacoli all’ordine del giorno. Li educherei come facciamo in famiglia a pretendere la qualità, come fa chiunque si sieda al tavolo di un ristorante che ha scelto proprio per questo. 

Alcuni colleghi invece hanno pensato di boicottare i test, chi per fare una pernacchia alla riforma in discussione, chi perché li trova (per certi versi anche giustamente) tanto inadeguati da non volerli correggere. Posso capire la seconda motivazione, ma la prima mi sembra una scusa (la figuraccia non la fa il Governo, dal momento che le prove ci sono dal 2007, ma chi esercita una professione e un ruolo). Vogliamo educare i ragazzi a diventare buoni cittadini, a rispettare le regole e le persone, e poi squalifichiamo tutto con un gesto che rende gli studenti pedine di un malcontento che riguarda noi ed è da sostenere in altre sedi.  

Mi chiedo se in questi anni, questi insegnanti abbiano proposto forme alternative di prova, sottoponendole al Collegio docenti, al Provveditorato, al Ministero, all’Invalsi. Con i ragazzi è fondamentale motivare la scelta, perché imparino che stiamo usando responsabilmente la nostra testa e il nostro ruolo, facendo quindi della protesta un’occasione educativa e non un semplice vuoto. A fronte di assenza di proposta costruttiva, che cosa abbiamo dimostrato loro? Perché noi possiamo spernacchiare una prova ufficiale e loro non dovrebbero fare altrettanto di fronte ad un compito insensato o non interessante, una spiegazione trita, un’interrogazione inadeguata? Crediamo veramente di preparare così i ragazzi ad un mondo sempre più difficile? Crediamo forse che lo sberleffo, non sostituito da nulla di costruttivo, li aiuterà a costruire un pensiero autonomo? Dobbiamo prepararli al futuro, non usarli. Dobbiamo metterli ancora di più alla prova, non illuderli che basta sottrarsi all’ostacolo per scavalcarlo, perché l’ostacolo resta lì.  

Crisi è una parola antica, indicava in greco l’atto del separare il grano dalla pula da parte dei contadini. In epoca di crisi dobbiamo «educarli alla crisi»: cioè a giudicare ciò che vale e a buttar via ciò che è effimero, ma non sottrarli alla fatica del campo da mietere (come se boicottassimo le biciclette perché nostro figlio è caduto mentre provava ad imparare a starci sopra). La cultura non serve a fuggire dalla realtà, perché è scomoda, ma ad abitarla, migliorandola e riparandola, soprattutto in tempi di crisi.