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Insegnanti, i disastri dell'era Berlusconi

Si parla, a ragione, dell'esigenza di rilanciare nell'istruzione pubblica qualità e merito; ma sono mere chiacchiere utili per i media se, fin dal momento della formazione degli insegnanti, si opera in direzione opposta

10/12/2012
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l'Unità

Giunio Luzzatto

LA SCIA DI DISASTRI CHE IL GOVERNO BERLUSCONI HA LASCIATO DIETRO DI SÉ CONTINUA A METTERE IN DIFFICOLTÀ il dopo-Berlusconi; il caso della scuola è tra i più gravi, essendovi stata una ministra, Gelmini, particolarmente impegnata nello sfasciare il settore. Il caso che qui discuto, sulla base di una recente comunicazione dei vertici ministeriali, è solo un esempio; non da poco, perché riguarda la possibilità di una formazione seria, o invece finta, per ventimila nuovi insegnanti. Gli antefatti. Per abilitarsi all'insegnamento secondarlo i laureati dovevano frequentare una Scuola universitaria biennale di specializzazione, Ssis. Poche settimane dopo il suo insediamento Gelmini la ha soppressa, annunciando un grande rinnovamento che avrebbe dato spazio all'esperienza sul campo, cioè a pratica nelle scuole, anziché a troppa teoria. Nei tre anni successivi ha ripetutamente esaltato un nuovo corso di formazione (annuale) detto Tirocinio Formativo Attivo, Tfa, ma prima del non rimpianto congedo non è riuscita a farlo decollare. Il ministro Profumo, per non penalizzare ulteriormente i laureati che da quattro anni non avevano la possibilità di conseguire l'abilitazione, ha deciso di non rimettere in discussione le scelte precedenti e lo ha attivato.     Si è ora nella fase finale della selezione dei partecipanti al Tfa; non entro qui nelle polemiche che hanno accompagnato una pessima formulazione dei quesiti per l'accesso, se non per rilevare che 180mila domande rendono obiettivamente difficile gestire una selezione, e che purtroppo ciò avviene inevitabilmente (come è avvenuto anche per il «concorsone», sempre in campo scolastico) se per molti anni si interrompono le regolari procedure, creando un ingorgo che poi intasa i percorsi. L'effettivo inizio delle attività formative è ora previsto in gennaio; deve comprendere insegnamenti relativi alle didattiche (generali e disciplinari) e il tirocinio che dà nome al corso. Alle attività di tirocinio devono sovraintendere docenti secondari esperti; un decreto del novembre 2011 (Gelmini non aveva provveduto) ha stabilito che ve ne sarebbe stato uno per ogni 15 corsisti. Il numero è alto, perché per ogni allievo il «tutor» deve fornire assistenza alla costruzione di un progetto individuale di tirocinio e all'elaborazione, raccordata con esso, della relazione conclusiva per l'abilitazione (l'analogo della tesi di laurea). Il fatto. Mentre le università stanno organizzando le future attività, il 3 dicembre il Miur comunica che «il rapporto 1/15 non potrà essere rispettato per la insufficienza delle risorse finanziarie disponibili». Non viene detto se esso sarà 1/30, o 1/1000: chi vivrà vedrà. Si osservi che gli insegnanti che seguono i tirocinanti dovrebbero avere una specifica competenza nelle materie di insegnamento coinvolte; vi sarebbero state comunque delle difficoltà perché già rispetto a 15 il numero di allievi in molti casi è inferiore, alzando questo valore un tirocinio degno di questo nome si potrà attuare solo in poche situazioni. Poche, e per di più imprevedibili. Risultato: vi sarà solo la teoria, e in contrasto con il nome del corso il tirocinio non sarà realmente attivo. Un commento. Si parla, a ragione, dell'esigenza di rilanciare nell'istruzione pubblica qualità e merito; ma sono mere chiacchiere utili per i media se, fin dal momento della formazione degli insegnanti, si opera in direzione opposta. Il governo che ci sarà dopo le elezioni non potrà limitarsi a qualche tentativo di riduzione del danno: per la scuola, e in particolare per gli insegnanti e per la loro qualificazione, occorrono scelte nette. E queste richiedono una discontinuità altrettanto netta sia per quanto riguarda i contenuti, sia per una effettiva priorità nella destinazione delle risorse pubbliche.