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Informatica o pensiero computazionale? Il futuro della scuola italiana

di Giovanni Salmeri

14/01/2017
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ROARS

Basandosi praticamente solo sulle idee purtroppo largamente sbagliate di un articolo di tre pagine di dieci anni fa, il Piano nazionale scuola digitale pretende di dare un nuovo indirizzo alla scuola italiana, ignorando di fatto una disciplina seria, matura, bella come l’informatica, per sostituirla con un non-so-ché. Se nel documento il termine «informatica» latita, «pensiero computazionale» viene invece usato in maniera torrenziale (quindici volte, sempre in posizioni strategiche). Di che si tratta? L’espressione venne coniata nel marzo del 2006 dall’informatica Jeannette Wing, per indicare le attitudini mentali che sono tipiche nell’informatica, ma che possono e debbono essere vantaggiosamente estese a qualsiasi campo del sapere. Quella che era annunciata come una possibile svolta epocale dopo appena qualche anno si è esaurita in pochi articoli ripetitivi e a volte francamente imbarazzanti (la brava cuoca organizza le pentole in maniera che il sugo sia caldo quando la pasta si scola? pensiero computazionale!). Il Center for Computational Thinking della Carnegie Mellon University, potentemente sponsorizzato dalla Microsoft, che doveva essere l’incubatore di questa rivoluzione, non ha attratto praticamente nessuno oltre la Jeannette Wing stessa e il suo sito non mostra nessuna traccia di vita dopo il 2012. Non è certo la prima volta che la scuola deve subire quel benaltrismo pedagogico che, con l’illusione di fare di più e meglio, cancella ideologicamente le uniche porte di ingresso nella cultura, che sono (c’è bisogno di ricordarlo?) tutte faticose e impegnative. Meglio dare l’impressione che si diventi senza sforzo geni con qualche giochino interdisciplinare, o al massimo facendo gironzolare un gattino con Scratch.

Il Piano nazionale scuola digitale, benché pubblicato un anno fa, è ancora meritevole di essere letto con attenzione. In esso vengono indicate linee di sviluppo e strategie che dovrebbero guidare la scuola italiana per diversi anni a venire e i ripetuti richiami fatti all’interno del recente Piano per la formazione docenti 2016-2019 sembrano averne ancora di più aumentato l’importanza, che comunque è stata ribadita qualche giorno fa in apposite celebrazioni del primo compleanno. Nel caso che si avesse qualche dubbio in proposito, la prima pagina ne descrive il ruolo centrale in termini inequivoci:

Il Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD) è il documento di indirizzo del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca per il lancio di una strategia complessiva di innovazione della scuola italiana e per un nuovo posizionamento del suo sistema educativo nell’era digitale.

È un pilastro fondamentale de La Buona Scuola (legge 107/2015), una visione operativa che rispecchia la posizione del Governo rispetto alle più importanti sfide di innovazione del sistema pubblico: al centro di questa visione, vi sono l’innovazione del sistema scolastico e le opportunità dell’educazione digitale.

Leviamoci subito un sassolino dalla scarpa: la lettura del documento è faticosa e sgradevole. Nessuno si aspetta di scoprire gemme letterarie tra i documenti governativi di indirizzo, ma non si capisce neppure perché l’attesa di una lingua italiana chiara, elegante, senza inutili e ridicoli barbarismi, senza giri di parole da cui non si riesce a trarre un solo concetto distinto, debba essere ormai regolarmente frustrata, per di più in testi usciti da un Ministero che in questo dovrebbe dare quanto meno il buon esempio (che ne pensa l’ex-Ministra che prsentò il testo, docente di linguistica nonché toscana?). Ma pure Plotino scriveva con innumerevoli errori di ortografia, pure il tedesco di Kant è spesso pesante e contorto: non fermiamoci quindi alle apparenze e passiamo a qualche breve osservazione di merito.

Non si possono certo riassumere in poche righe 140 pagine, a volte molto dettagliate e documentate, ma non crediamo di sbagliare molto se individuiamo tre grandi linee che vengono lì sviluppate. La prima riguarda l’ammodernamento tecnologico delle scuole e la loro dotazione di strumenti informatici che possono essere di ausilio nell’insegnamento di tutte le materie. La seconda ha ad oggetto lo studio dell’informatica a partire dalla scuola primaria. La terza infine propone l’approfondimento e la comprensione del ruolo crescente dell’informatica nella vita personale e sociale. Per tutte e tre queste linee vengono indicati con maggiore o minore dettaglio gli obiettivi, le risorse disponibili e le iniziative intraprese o da intraprendere. A questo livello generale è difficile dissentire dal documento, e bisogna anzi rallegrarsi del fatto che queste tre linee, ancorché profondamente diverse, vengano trattate congiuntamente: è vero infatti che hanno rapporti fra di loro e che nella prassi dell’insegnamento il passaggio dall’uno all’altro piano può essere un’ottima occasione per un’interdisciplinarità non artificiale. L’esplicita menzione del terzo livello, poi, può certamente essere benvenuta in un tempo in cui il rapido avanzamento della tecnologia richiede un’attenzione maggiore. La scuola può così diventare non (o non solo) il luogo dove si mette in guardia dagli orchi cattivi della Rete, ma il luogo dove s’incoraggia creatività e uno spirito critico nuovo.

Chi leggerà il documento e lo confronterà con il nostro scheletrico riassunto noterà certamente molte differenze terminologiche (confessiamo di avere intenzionalmente tradotto nell’italiano della Crusca, per così dire). Una differenza è però cruciale e su essa vorremmo attirare l’attenzione. Il documento, a ben vedere, non parla mai di informatica. La parola, sotto forma di sostantivo o aggettivo, compare solo nove volte: quattro volte per denominare le apparecchiature necessarie o le tecnologie con cui bisogna familiarizzare, una volta per indicare i corsi di laurea con questa specializzazione, una volta (nella formula «Abilità e conoscenze informatiche») per indicare una possibile forma di aggiornamento relativa all’innovazione didattica. Mancano all’appello quattro occorrenze: esse sono impiegate, in varia forma, per suggerire che ciò che si sta qui proponendo come oggetto di sperimentazione e apprendimento è ben di più che l’informatica. E che cos’è? La risposta è facile: se il termine «informatica» latita, due espressioni vengono usate in maniera torrenziale: «pensiero computazionale» (quindici volte, sempre in posizioni strategiche) e «competenze digitali» (trentanove volte). Liberiamoci rapidamente di quest’ultima: si tratta di un’espressione generica e infelice, che non dice nulla (tra l’altro, se essa avesse un senso chiaro e distinto, dovrebbe averlo anche la sua corrispettiva «competenze analogiche»).

computationalthinkingIl problema è invece con la prima espressione: «pensiero computazionale». Di che si tratta? e perché proporlo come alternativa all’informatica? Qui la risposta è facile, perché l’espressione ha un anno di nascita e una maternità chiara: venne coniata nel marzo del 2006 dall’informatica Jeannette Wing («Computational Thinking», Communications of the ACM, vol. 49(2006), n. 3, pp. 33-35), per indicare le attitudini mentali che sono tipiche nell’informatica, ma che possono e debbono essere vantaggiosamente estese a qualsiasi campo del sapere: per esempio, pensare a molteplici livelli di astrazione e connetterli fra di loro. L’articolo seminale in cui Jeannette Wing propose quest’idea si conclude con l’auspicio che nel primo anno di Università a tutti venga tenuto un corso sulle «Maniere di pensare come un informatico». Quattro anni più tardi lei stessa, insieme con suoi collaboratori, giunse a questa definizione più precisa: «Il pensiero computazionale è il processo mentale coinvolto nel formulare i problemi e le loro soluzioni in modo che le soluzioni siano rappresentate in una forma che può essere efficacemente condotta da un agente che elabora informazioni». L’idea era senza dubbio interessante e degna di essere approfondita. In fondo, essa proponeva una strada nuova in cui l’informatica avrebbe potuto uscire dal suo campo specialistico per diventare una sorta di paradigma mentale fecondo in qualsiasi campo dell’attività umana.

Retrospettivamente, la proposta aveva però alcuni punti deboli fatali. Un primo piccolo punto debole (forse il più evidente per chi come me ha una formazione soprattutto filosofica) è che alcuni dei suoi elementi ricordavano troppo da vicino i secolari precetti del buon ragionare per non apparire come la scoperta dell’acqua calda. Se per esempio si invita a decomporre un problema grande in altri problemi più piccoli, non basta per questo aver letto il Discorso sul metodo di Descartes? Un secondo punto debole è però decisivo e consiste nel rapporto ambiguo che questo «pensiero computazionale» avrebbe con l’informatica propriamente detta. Da una parte parrebbe che Jeannette Wing creda che il primo possa e debba essere insegnato indipendentemente dalla seconda, perché si tratta appunto di un’attitudine che già si riscontra nell’attività umana di tutti i giorni (perlomeno quando «calcoliamo» prima di agire) e che porterebbe benefici a tutti i campi della cultura se perseguito con maggiore coerenza. Dall’altra nessun esempio che ella porta nel suo primo articolo è comprensibile se non si conosce con un minimo di dettaglio l’informatica. Facciamo un piccolo esempio: «Il pensiero computazionale è pensare ricorsivamente. È processamento parallelo. È interpretare il codice come dati e i dati come codice. È controllare i tipi come generalizzazione dell’analisi dimensionale. È riconoscere sia le virtù che i pericoli dell’assegnazione di alias, ovvero del dare a qualcuno o qualcosa più di un nome. È riconoscere sia i costi sia il potere dell’indirizzamento indiretto e della chiamata di procedure». Alzi la mano chi, ignaro di informatica (o per essere più esatti di programmazione), ha capito una sola parola di tutto ciò. Un terzo punto debole, collegato a questo, è che, malgrado continuamente si dica che tutti i campi della cultura hanno da avvantaggiarsi del pensiero computazionale (per esempio la statistica o la biologia), gli esempi che vengono portati mostrano costantemente un’altra cosa, ben nota e non bisognosa di nessun nuovo nome: cioè le applicazioni dell’informatica. Insomma: ciò che sembra salvarsi della proposta di Jeannette Wing è solo un’affermazione generale, in parte restata fra le righe: che cioè l’informatica rappresenta una forma di esercizio e rigore mentale preziosa per tutti, e decisiva per le applicazioni che essa crescentemente ha nei più vari campi del sapere. Giusto: io sono per esempio convinto che studiare un vero linguaggio di programmazione sarebbe ottimo in ogni ordine di scuola e anche in ogni corso di laurea.

«Retrospettivamente» la proposta di Jeannette Wing aveva alcuni punti deboli fatali, dicevamo. Che essi fossero effettivamente fatali è stato ahinoi dimostrato dalla storia seguente. Quella che era annunciata come una possibile svolta epocale dopo appena qualche anno si è esaurita in pochi articoli ripetitivi e a volte francamente imbarazzanti nel loro tentativo di trovare tracce di «pensiero computazionale» dappertutto (la brava cuoca organizza le pentole in maniera che il sugo sia caldo quando la pasta si scola? pensiero computazionale!). La pretesa secondo cui il pensiero computazionale è qualcosa di più, o di diverso, o di preliminare, rispetto all’informatica è rimasto così un ritornello che non ha retto alla più elementare prova dell’hic Rhodus hic salta. Il Center for Computational Thinking della Carnegie Mellon University, potentemente sponsorizzato dalla Microsoft, che doveva essere l’incubatore di questa rivoluzione, non ha attratto praticamente nessuno oltre la Jeannette Wing stessa e il suo sito non mostra nessuna traccia di vita dopo il 2012. Una sua intervista del marzo 2016 celebra con molta enfasi le dieci candeline del «pensiero computazionale»: ma gli esempi portati riguardano niente di diverso dall’insegnamento dell’informatica, oppure le benemerenze della Microsoft nello sponsorizzare progetti di «Computer Science for All» (con toni che non meravigliano sulla bocca di colei che ora è la Corporate Vice President della Microsoft Reasearch). Anche le iniziative che sono state prese sotto l’etichetta di un coding dichiarato distinto dalla «programmazione», indipendentemente dai loro meriti, non sono riuscite a dimostrare niente di diverso dal fatto che fondamenti dell’informatica insegnati in maniera giocosa non vanno identificati con l’informatica in generale: nessuna traccia invece di un’autonomia epistemologica del «pensiero computazionale». Così funziona la scienza, anzi la cultura in genere. Per avere la pagliuzza d’oro dell’idea buona che regge la prova del tempo è necessario proporne e setacciarne cento. Purtroppo il pensiero computazionale faceva parte delle altre novantanove.

Il guaio è quando la sabbia viene scambiata e spacciata per oro. Dispiace dire che ci sono tutti gli indizi per temere che il Piano nazionale scuola digitale faccia esattamente questo. Basandosi praticamente solo sulle idee purtroppo largamente sbagliate di un articolo di tre pagine di dieci anni fa, esso pretende di dare un nuovo indirizzo alla scuola italiana, ignorando di fatto una disciplina seria, matura, bella come l’informatica, per sostituirla con un non-so-ché. In 140 pagine non esiste il minimo accenno all’insegnamento di un linguaggio di programmazione, cioè a quanto in tutte le Università del mondo è oggetto del cosiddetto corso CS/1 (vale a dire il primo in Computer Science). La parola «programmazione» compare nel documento quindici volte… doccia fredda: solo per riferirsi a programmazioni didattiche e nazionali (a dire il vero c’è un accenno alla «programmazione a blocchi e schede»: ma non mi risulta essere tra i paradigmi di programmazione noti in informatica, mi viene il sospetto che sia solo gergo pseudo-informatico). Chiedo scusa in anticipo se a causa di omonimie ho scorrettamente identificato qualcuno: se non è così, tra i ventidue esperti che vengono indicati come autori o collaboratori del documento vi sono competenze preziose (di tipo pedagogico, filosofico, sociologico, per esempio), ma non vi è neppure un informatico. Ripetiamolo per chiarezza: per un documento che dovrebbe parlare di informatica, non è stato consultato neppure un informatico.

Questa penosa situazione potrebbe innescare molti ordini di considerazioni. Non è certo la prima volta che la scuola deve subire quel benaltrismo pedagogico che, con l’illusione di fare di più e meglio, cancella ideologicamente le uniche porte di ingresso nella cultura, che sono (c’è bisogno di ricordarlo?) tutte faticose e impegnative. Meglio dare l’impressione che si diventi senza sforzo geni con qualche giochino interdisciplinare, o al massimo facendo gironzolare un gattino con Scratch. Ma non vorremmo omettere di notare, con amarezza, che questa è anche un’ulteriore, strisciante delegittimazione dell’Università e di ciò che in essa viene studiato e insegnato. Il messaggio che questo documento manda agli 861 ricercatori e docenti universitari di Informatica in Italia, e alle migliaia di loro studenti, è fin troppo chiaro, temo.


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