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In una scuola di Bologna c’è un’isola di libertà per i bambini

Un’accesa battaglia che contrappone, a Bologna, una dirigente scolastica di nuova nomina a un gruppo di docenti di lunga esperienza, fortemente persuasi del loro lavoro.

12/03/2016
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Internazionale
Franco Lorenzoni, insegnante

A quanti quarti d’ora di gioco ha diritto un bambino che a 6 anni trascorre otto ore a scuola? Chi decide quanto può durare la sua ricreazione? E ancora: i bambini devono sperimentare a scuola solo spazi recintati o possono muoversi in libertà, imparando ad abitare spazi aperti?

Queste domande hanno conquistato l’attenzione dei mezzi d’informazione grazie a un’accesa battaglia che contrappone, a Bologna, una dirigente scolastica di nuova nomina a un gruppo di docenti di lunga esperienza, fortemente persuasi del loro lavoro.

“Trent’anni fa, quando ci andavo io a scuola, potevamo salire sugli alberi, infilarci a giocare nei boschetti e andare dappertutto. Degli anni delle elementari ricordo la villa abbandonata che sta sopra la scuola dove giocavamo a nascondino, le more di gelso, le partite di calcio e pallavolo in cortile, poi una ricerca su Jane Eyre fatta in quinta, i quaderni con attaccate le foglie del parco e il vestito che avevo alla festa di fine anno, che ho strappato scendendo da un albero”.

Ascoltare oggi un racconto così farebbe accapponare la pelle a qualsiasi dirigente scolastico e, infatti, poiché per diverse congiunture nella scuola a tempo pieno Longhena di Bologna i bambini respirano ancora, almeno in parte, quella libertà evocata dalla mamma di un bambino che la frequenta, la dirigente scolastica si è talmente preoccupata di questi eccessi di libertà, che si è sentita in dovere di correre ai ripari e limitare tempi e spazi della ricreazione, scrivendo in una circolare che “il regolamento del consiglio di istituto recita che è previsto ‘un intervallo di almeno venti minuti’ e che l’avverbio almeno, nel significare per non meno di venti minuti, non autorizza i docenti al sistematico raddoppio dei minuti. Per le medesime ragioni sovraesposte, accertato che il servizio ristorazione termina per tutte le classi alle ore 13:10, si dispone che esso non si svolga oltre le ore 14:00”.

Noi fuori ci andiamo non solo per la ricreazione, ma anche per studiare geometria e scienze

Le insegnanti della scuola si sono opposte in modo compatto e la polemica è finita sui giornali, anche per il forte coinvolgimento delle famiglie, che hanno lanciato anche un appello che ha raccolto più di 1.500 firme in quattro giorni. “Alle Longhena non c’è una recinzione e io, a tutela dei bambini, impiego due persone del corpo non docente che aiutino gli insegnanti nella sorveglianza degli alunni all’esterno”, ha dichiarato al Corriere della Sera la dirigente Giovanna Facilla, aggiungendo: “Non posso permettermi di tenere fuori per ore del personale che potrei impiegare in altro, solo perché le maestre vogliono uscire quando pare a loro. Serve un po’ di ordine in questa scuola”.

Le scuole Longhena sono una sorta di isole Galapagos della didattica, perché conservano, inalterate nel tempo, alcune consuetudini educative da tempo estinte in quasi tutte le scuole italiane.

Così, da visitatore appassionato di diversità educative, mi sono emozionato ad ascoltare una maestra affermare che “nella nostra scuola da decenni non suona la campanella. Lavoriamo con i bambini in classe e quando abbiamo terminato un’attività usciamo fuori, vista la fortuna di stare nel cuore del parco del Pellegrino. La flessibilità dell’orario ci permette di non interrompere discussioni e ricerche che proponiamo ai bambini e io penso che non abbia senso uniformare rigidamente gli orari tra bambini di sei anni e undici anni”, sostiene convinta la maestra Marzia Mascagni. “E poi noi fuori ci andiamo non solo per la ricreazione, ma anche per studiare geometria e scienze, fare attività motorie, giardinaggio e coltivare il nostro piccolo orto. Ogni settimana, poi, una classe a turno dedica del tempo a mantenere puliti gli spazi naturali”.

Lucciole e stelle

La storia di come si impara a rispettare i confini è particolarmente interessante perché la scuola – caso rarissimo – è priva di recinzioni, ma ha in compenso un’articolata forma di democrazia rappresentativa. “Ogni classe ha la sua assemblea”, continua la maestra Mascagni, “ed elegge ogni anno, dopo convinte campagne elettorali, due alunni per l’Assemblea dei bambini rappresentanti, che si riunisce quattro volte l’anno. È lì che si decidono gli spazi naturali che bambine e bambini possono esplorare a seconda dell’età e le regole di convivenza riguardo all’organizzazione dei giochi, all’uso dei bagni e ai comportamenti da tenere a mensa e negli scuolabus. In tanti anni non abbiamo mai avuto alcun problema e noi siamo convinti che interiorizzare regole da rispettare, decise insieme, così come definire confini da non sorpassare, sia un’opera educativa complessa, ma molto più interessante che costruire recinti e cancelli”.

Educare senza recinti è qualcosa di più di una bella metafora. Racconta di una scuola possibile, in cui lo scorso anno bambine e bambini delle terze hanno dormito una notte nei sacchi a pelo a scuola, a tarda primavera, per vedere insieme lucciole e stelle.

La ricreazione, in verità, è più ‘pericolosa’ in spazi chiusi che aperti

Allora, per essere onesti, dobbiamo dire che la vera notizia non è quella di una dirigente scolastica che cerca di imporre un regolamento rigido riguardo alla ricreazione, ma che ci sia una scuola, in Italia, in cui la maggioranza dei genitori si schieri contro la costruzione di una recinzione, che ci sia un gruppo coeso di insegnanti che sono riusciti a opporsi all’assai discutibile reintroduzione dei voti alle elementari, voluta dalla ministra Moratti, e che abbiano lottato e siano riusciti a mantenere intatto il tempo pieno con due maestre per classe, nonostante gli oltre otto miliardi tagliati alla scuola elementare da Giulio Tremonti, quando fu ministro dell’istruzione nascondendosi dietro lo pseudonimo di Mariastella Gelmini.

La dottoressa Facilla si è probabilmente mossa in modo arrogante, minacciando gli insegnanti di sanzioni disciplinari, ma la responsabilità non è certo solo sua, perché incarna in modo esemplare, forse inconsapevolmente, lo spirito del tempo.

La nuova generazione di dirigenti scolastici è stata infatti formata dal ministero dell’istruzione, della ricerca e dell’università innanzitutto su questioni di sicurezza, e l’architettura burocratica delle scuole della cosiddetta autonomia, costrette dentro bilanci impossibili, stressa a tal punto i dirigenti che solo una minoranza riesce a mettere il benessere e il bene imparare dei bambini al centro dell’attenzione.

La sua battaglia campale contro la ricreazione lunga, in verità più “pericolosa” in spazi chiusi che aperti, mette in luce un’idea di scuola dove il controllo si contrappone all’esperienza e, in nome di una presunta efficienza, fa sentire a tutti il fiato sul collo.

La Longhena non è una scuola ideale. Ci sono tuttavia alcune idee di fondo che sarebbe utile tenere presenti

E allora, se guardiamo meglio dentro questa vicenda, ci accorgiamo che quest’isola di scuola resistente ha una storia complessa e contraddittoria, che potrebbe essere raccontata anche in modo opposto. Docenti autoreferenziali rifiutano ogni valutazione esterna (hanno partecipato numerosi agli scioperi contro le prove Invalsi gli scorsi anni) sostenuti da genitori potenti, con grandi entrature nei mezzi d’informazione, perché è evidente che nel servizio del Tg1 faceva una ben magra figura la malcapitata dirigente. E oggi, chi si trova a fare il dirigente scolastico, è nell’occhio del ciclone per le impressionanti spinte al controllo imposte dall’alto.

Ma nell’Italia di oggi, probabilmente, solo così è possibile preservare nicchie di buon senso operoso. La scuola è stata infatti salvata dalla chiusura pochi anni fa da genitori appassionati, che sostenevano fortemente un modo di educare più disteso. È anche vero, purtroppo, che per abitudine ad avere la scuola vicino a casa e per via del costo dei pulmini, si è trasformata senza volerlo in una scuola di élite, dove il numero dei bambini immigrati è drasticamente inferiore a quello di altre scuole di Bologna. Tanto che la maestra Mascagni ci tiene a dire che a lei piacerebbe che comune e servizi sociali trovassero il modo perché a fruire del privilegio di una scuola situata in un meraviglioso parco non fossero solo figli di genitori ricchi, se non economicamente, certo culturalmente.

Corpo a corpo con la realtà

Probabilmente le scuole Longhena ce la faranno ancora una volta a salvare i frammenti di libertà che vivono bambine e bambini che la frequentano, ma noi abbiamo il dovere di domandarci perché le attività audaci e sensate che si sperimentano su quella collina possano essere lette oggi, in Italia, come “una situazione di totale anarchia” da una dirigente scolastica che si domanda “Come si fa ad apprendere bene, dove il caos regna sovrano”, solo perché i bambini hanno imparato a stare a lungo all’aperto.

La Longhena non è una scuola ideale. Ci sono tuttavia alcune idee di fondo che quella esperienza porta alla ribalta, che sarebbe assai utile tenere presenti.

Il tempo pieno fu istituito in Italia nel 1971 per esigenze sociali e diventò subito terreno propizio delle più avanzate sperimentazioni didattiche. Fu una delle proposte più vitali della scuola elementare perché due insegnanti che lavorano in una classe permettono tempi distesi, e quell’intreccio tra fare, sperimentare, studiare e divertirsi che troppe volte manca in scuole dagli orari e dalle discipline frammentate perché quasi ovunque quell’organizzazione è stata stravolta dai tagli e dagli spezzettamenti orari dei docenti.

Riguardo agli spazi, la pressione e l’ansia di controllo dei genitori, unita al crescente panico verso ogni imprevisto di dirigenti e insegnanti, impedisce sempre più ai bambini di uscire e fare esperienze all’esterno, imparare a organizzarsi in modo autonomo e a governarsi da soli, anche nel gioco. Inoltre, non c’è ancora una legge che imponga, almeno per le scuole di nuova costruzione, un minimo di spazio vitale verde intorno alle scuole, come in altri paesi europei.

Il paradosso è che sia le indicazioni ministeriali sia le direttive europee invitano a lavorare sulle cosiddette competenze di cittadinanza, da costruire esercitandosi in un corpo a corpo con la realtà e mettendosi in gioco con gli altri, mentre spazi e tempi dell’educare vanno in senso contrario, imbrigliati e soffocati da rigidità legislative e mentali che portano sempre più noi adulti a guardare con paura bambine e bambini in libertà.

Fosse anche solo per avere riportato alla ribalta questi temi dobbiamo dire grazie alle e agli insegnanti delle scuole Longhena e ai genitori e ai bambini che li sostengono.


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