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In Italia un giovane su tre non lavora e non studia

05/03/2016
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Internazionale
, giornalista

Mentre in Europa il dato è stabile e in alcuni paesi come il Regno Unito il numero di persone inattive è in calo, in Italia il numero delle persone tra i 15 e i 34 anni che non studiano e non lavorano e non ricevono formazione (cioè neet, not in education, employment or training) è in espansione: secondo l’Istat si è passati dal 20,9 per cento del 2005 al 27,3 per cento del 2015. Se si guardano i dati dei giovani tra i 18 e i 29 anni, la percentuale di neet arriva al 31,1 per cento. In altre parole, in Italia circa un giovane su tre vive la sua vita senza lavorare e senza formarsi.

Come si cade nella condizione di inattività. Secondo gli studi sul fenomeno i fattori che conducono all’inattività sono numerosi. Hanno un peso gli ambienti in cui la persona cresce e si forma, come la famiglia e le scuole. Una ricerca della onlus WeWorld rileva che circa un inattivo su quattro ha un’esperienza di abbandono scolastico. Eurofound, l’agenzia che si occupa del miglioramento delle condizioni di lavoro in Europa, stima che avere genitori con un basso livello di istruzione raddoppia la probabilità di diventare neet, così come sono fattori di rischio un reddito familiare basso, un background di immigrazione, una disabilità o il vivere in zone isolate.

Nel mezzogiorno quasi un giovane su due, tra i 18 e i 29 anni, risulta inattivo

Le cose cambiano tra donne e uomini e tra nord e sud. Nel mezzogiorno quasi un giovane su due, tra i 18 e i 29 anni, risulta inattivo (41,4 per cento degli uomini, 43,5 delle donne), dati che al nord scendono al 18,9 e 26,2 per cento. In tutta Italia il fenomeno incide di più sulle donne a causa della difficile conciliazione tra lavoro e famiglia: nei dati rientrano anche le donne che per scelta o per obbligo si dedicano esclusivamente alla famiglia (e ciò in parte spiega perché tra i 25 e i 34 anni la percentuale di donne “inattive” sale al 55,1 per cento).

Alla situazione economica si intreccia una questione culturale. “Il fatto che in Italia la quota di giovani inattivi sia potuta aumentare così tanto negli ultimi anni è anche legato a due specificità italiane”, spiega Alessandro Rosina, docente di demografia e statistica sociale dell’Università Cattolica di Milano e autore del libro Neet. Giovani che non studiano e non lavorano.

Secondo Rosina “a differenza di ciò che avviene in altri paesi europei, il modello culturale italiano rende accettabile una lunga dipendenza dei figli adulti dai genitori”. I figli in Italia, in altre parole, avvertono più tardi che in altri paesi l’esigenza di uscire di casa e rendersi indipendenti dai genitori (così come i genitori non sentono l’urgenza di mandare via di casa i figli).

C’è poi l’economia sommersa. Molti dei giovani che nei dati risultano inattivi in realtà lavorano in nero. “Al giorno d’oggi non esistono dati in grado di quantificare il rapporto tra economia sommersa e numero dei neet”, spiega Rosina, “ma sappiamo che molti giovani inattivi per sopravvivere lavorano in nero”.

Soluzioni. “Trovarsi nella condizione di neet è come essere dentro a un labirinto. Se ci si ferma non si troverà mai l’uscita”, spiega Rosina. “Il consiglio più utile che si può dare a chi si trova in inattività è quello di non rassegnarsi e continuare a cercare lavoro e a credere in se stesso”. In termini pratici, per esempio, si può occupare il tempo del periodo di inattività per riqualificare le proprie competenze.

Secondo Rosina è necessario combattere la dispersione scolastica, rafforzare l’orientamento formativo dei giovani e migliorare la comunicazione tra il mondo della scuola, dell’università e del lavoro. Va poi stimolata la capacità di imprenditorialità dei giovani. “Oltre a migliorare la qualità della presenza delle nuove generazioni nelle imprese e la capacità delle imprese di trasformare tale qualità in vantaggio competitivo sul mercato”, spiega Rosina, “è necessario consentire ai giovani di creare nuovo lavoro e fornire strumenti adeguati per farlo con successo. La creatività artigianale e la capacità di innovazione tecnica delle nuove generazioni italiane sono oggi fortemente sottoutilizzate”.

I costi economici. L’inattività ha un enorme costo economico. Eurofound ha calcolato il costo per l’Ue della mancata integrazione dei neet in più di 150 miliardi di euro nel 2011, pari all’1,2 per cento del pil dell’Unione europea.

In Italia il costo è più alto. Secondo le stime dell’I-com, l’istituto per la competitività, la mancata integrazione dei neet ha un impatto sul pil italiano di circa 36 miliardi e provoca una perdita di 15 miliardi di euro di gettito fiscale. Secondo lo stesso studio, se i dati italiani fossero allineati alla media europea si otterrebbe un aumento di nove miliardi sul pil e di 3,9 miliardi in gettito fiscale. Per intendersi, la spesa in Italia per ricerca e sviluppo sostenuta nell’insieme da imprese, istituzioni pubbliche, istituzioni private non profit e università ammonta a circa 20 miliardi di euro.


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