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Il sottofinanziamento della ricerca scientifica e la disoccupazione giovanile

11/09/2019
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ROARS

Guglielmo Forges Davanzati

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L’aumento della disoccupazione giovanile, secondo la visione dominante, è da imputarsi al mancato incontro fra la domanda di lavoro espressa dalle imprese e l’offerta di lavoro proveniente dai lavoratori. Questi ultimi – si sostiene – ricevono da scuola e Università una formazione generalista, eccessivamente calibrata sull’acquisizione di conoscenze e poco attenta alla trasmissione di competenze. Le competenze – il saper fare – sono (o sarebbero) quelle di cui le imprese, in un’ottica di breve periodo, hanno bisogno. La linea di politica economica che ne discende fa riferimento alla necessità di riformare i sistemi formativi per renderli funzionali alla produzione di forza-lavoro ‘occupabile’.

Il fatto che alcune imprese, in alcuni particolari segmenti del mercato del lavoro, trovino (o denuncino) difficoltà nel reperire manodopera con il livello e la qualità della formazione richiesta non implica che l’intera disoccupazione giovanile in Italia (superiore al 60% in alcune regioni del Sud) dipenda dal mismatch fra competenze offerte e competenze richieste. Per smentire questa tesi, può essere sufficiente considerare che oltre il 40% delle imprese italiane dichiara di non occupare – o non intendere assumere – laureati, a fronte del 18% della Spagna e del 20% della Germania.

La disoccupazione giovanile italiana – da molti anni superiore alla media europea – dipende essenzialmente dal combinato di un calo di lungo periodo della domanda aggregata (calo si è manifesto con la massima intensità a seguito dello scoppio della prima crisi, nel 2007-2008, e che ha avuto impatti anche sulla disoccupazione di individui in età adulta e anche sulla disoccupazione di lungo periodo) e dalla crescente fragilità della nostra struttura produttiva, particolarmente nel Mezzogiorno. La disoccupazione giovanile è aumentata sia perché le imprese hanno trovato conveniente, in una fase recessiva, non licenziare lavoratori altamente qualificati per non dover sostenere i costi della formazione dei neo-assunti, sia per il blocco delle assunzioni nel pubblico impiego.

La teoria del mismatch fa propria una visione della formazione economicistica, funzionalista e di breve periodo: il sistema formativo – stando a questa visione – è, o deve essere, sottostare a vincoli propriamente economici. O vincoli relativi al bilancio pubblico, nel qual caso è chiamato a fare a meno di risorse per contribuire a generare risparmi dello Stato (come è accaduto con la straordinaria contrazione dei finanziamenti alle Università nell’ultimo decennio) o vincoli posti nel mercato del lavoro, nel qual caso è chiamato a ‘produrre’ laureati occupabili.

Si badi che non è, questa, la sola visione possibile del ruolo dei sistemi formativi. Questa visione origina – o comunque si rafforza – a seguito dell’ingresso nelle aule universitarie italiane della cosiddetta teoria del capitale umano e, più in generale, di una visione della formazione orientata al mercato. Siamo negli anni novanta e questa teoria prova – riuscendoci – ad accreditare l’idea che l’accumulazione individuale e collettiva di istruzione è un fattore rilevante di crescita economica. Di per sé, si tratta di una tesi difficilmente discutibile. Lo diventa, tuttavia, quando viene declinata in termini di politiche formative, ovvero quando viene declinata come l’istruzione deve contribuire alla crescita economica. E lo diventa quando assume che l’istruzione sia unicamente un investimento, che gli individui effettuano in vista di benefici futuri in termini di reddito e posizionamento nel mercato del lavoro.

Una visione alternativa ovviamente esiste. Un’istruzione diffusa è desiderabile in quanto tale e non occorrerebbe trovare motivazioni per finanziarla. In più, un’istruzione diffusa è comunque desiderabile anche per gli effetti indiretti e di segno positivo che essa produce sullo sviluppo economico, in termini di maggiore propensione al rispetto delle norme e minore propensione a delinquere.

La ritirata dello Stato dal settore della formazione è una delle maggiori cause della lunga recessione italiana, dal momento che – proprio a ragione di questo e data l’incapacità o l’impossibilità della gran parte delle nostre imprese di produrre innovazioni – il tasso di crescita della produttività del lavoro (che dipende essenzialmente dalla dinamica degli investimenti) è in caduta libera da oltre vent’anni.

E’ stato stimato che la spesa pubblica e privata per ricerca e sviluppo ammontava, nel 1975, al solo 0.8% rispetto al Pil, passando a un modesto 1.3% nel 1990. La media OCSE era, in quel periodo, di circa il 2% di spesa pubblica e privata in ricerca scientifica in proporzione al Pil. In quegli anni, sebbene l’Italia spendesse per innovazioni meno della media dei Paesi industrializzati, si segnalava comunque una traiettoria di convergenza verso modelli più virtuosi. Questa traiettoria è venuta meno a partire dallo scoppio della prima crisi (2007-2008), alla quale il Governo Berlusconi ha reagito tagliando drammaticamente i fondi per la ricerca. Erano gli anni nei quali l’allora ministro Tremonti dichiarava che “con la cultura non si mangia”. Ed erano gli anni nei quali le Università erano descritte dai media come luoghi di corruzione, nepotismo, spreco. La traiettoria di convergenza si tramuta in una traiettoria di crescente divergenza: nel 1995, la spesa per ricerca e sviluppo scende all’1% del Pil, a fronte di una media OCSE del 2%. Nel 2010, l’Italia diventa ultima per finanziamenti delle innovazioni fra i Paesi industrializzati, superata anche dalla Spagna.

Questa dinamica trova la sua spiegazione nel fatto che l’Italia ha sempre cercato di competere su scala internazionale attraverso politiche di bassi salari o di svalutazione della lira. Per contenere la dinamica salariale, si è scelta la strada della dequalificazione della forza-lavoro (lavoratori con bassi livelli di istruzione ricevono, di norma, salari inferiori rispetto a lavoratori altamente scolarizzati). Per accresce le esportazioni si è scelta la strada della svalutazione della nostra moneta. Ed entrambe queste politiche – accentuate in particolare negli anni ottanta – se pure hanno prodotto risultati positivi di breve periodo, si sono rivelate drammaticamente nocive per la crescita di lungo periodo: sia perché bassi salari comportano bassi consumi e bassa domanda interna, sia perché – in una condizione, come quella attuale, nella quale non è più possibile svalutare unilateralmente – le nostre esportazioni finiscono per dipendere sempre più da ulteriori riduzioni dei salari (e dunque dei prezzi dei beni esportati) e dalla qualità delle nostre produzioni. Quest’ultimo fattore, nel caso italiano, non attiene all’uso di nuove tecnologie, ma al perfezionamento di tecniche di produzione fondamentalmente artigianali (si pensi al settore della moda o dell’agroalimentare), basate sulla conoscenza ‘tacita’, a basso valore aggiunto e con bassa intensità di capitale. Si tratta di un modello di crescita estremamente fragile, che poteva avere successo fin quando era possibile la svalutazione della lira e, soprattutto, fin quando non vi era la concorrenza manufatturiera dei Paesi asiatici (Cina e India in primis).

La rilevante decurtazione di finanziamenti ai centri di ricerca operata, in particolare, dall’ultimo governo Berlusconi si iscrive, dunque, in un andamento di più lungo periodo, che vede l’Italia arretrare sistematicamente – per quanto attiene alla produzione di innovazioni – rispetto ai suoi concorrenti su scala internazionale. In altri termini, il sottofinanziamento dell’Università è, nel caso italiano, un dato strutturale, del tutto indipendente da una risposta politica errata (quella appunto del Governo Berlusconi e dei governi che si sono succeduti) e del tutto indipendentemente dalla necessità di accrescere i risparmi del settore pubblico.

Anzi: mentre si tagliavano fondi alla ricerca, per l’obiettivo dichiarato di ridurre il rapporto debito pubblico in rapporto al Pil, questo stesso rapporto cresceva. E ciò accadeva del tutto indipendentemente dai Trattati europei e dei vincoli che questi impongono. Per converso, e per quanto l’Unione europea sia legittimamente criticabile (e lo era fin dall’atto della sua costituzione), va ricordato che essa incentiva la cosiddetta economia della conoscenza e, dunque, maggiore spesa per l’istruzione, la formazione professionale, la ricerca scientifica. L’Italia si muove in direzione contraria: come certificato da Eurostat, il nostro Paese è ultimo, fra i Paesi europei, per quanto attiene alla percentuale di laureati in rapporto alla forza-lavoro nella fascia d’età 30-34 anni e anche per numerosità di sedi universitarie.

L’economia italiana, per contro, avrebbe bisogno – nei limiti dello spazio fiscale disponibile – di investimenti pubblici in ricerca, che attivino un percorso potenzialmente virtuoso di crescita trainata dalla domanda interna e da innovazioni. Si tratterebbe di una misura fattibile ed efficace per l’obiettivo di rilanciare la crescita economica e ridurre la disoccupazione giovanile, per le seguenti ragioni.

  • La spesa per ricerca e sviluppo in Italia è in continua riduzione ed è significativamente inferiore alla media dei Paesi industrializzati. In più, come certificato dall’OCSE, essa è inferiore alla spesa che lo Stato italiano sostiene per il pagamento degli interessi sui titoli del debito pubblico. La spesa privata per ricerca è una delle più basse dell’OCSE. Le poche innovazioni che le poche imprese private fanno sono per lo più innovazioni incrementali e la gran parte delle innovazioni di cui fanno uso derivano da importazioni di beni capitale ad alta intensità tecnologica.
  • Si stima che i giovani laureati disoccupati o sottoccupati residenti in Italia sono circa 1 milione. Si tratta di individui le cui conoscenze sono non utilizzate o sottoutilizzate (si pensi ai casi sempre più frequenti di laureati camerieri) e potenzialmente occupabili in centri di ricerca pubblici. Il costo a carico delle finanze pubbliche sarebbe di gran lunga inferiore a quello impegnato dal Governo Conte 1 per i principali provvedimenti della manovra finanziaria (reddito di cittadinanza, “quota 100”, flat tax) e l’assunzione di giovani qualificati nel settore pubblico avrebbe effetti positivi nel breve periodo di espansione della domanda interna e di lungo periodo sul tasso di crescita della produttività del lavoro.
  • Il settore pubblico italiano è notevolmente sottodimensionato e, per numero di dipendenti, più piccolo della media europea, a causa di lunghi periodi di blocco delle assunzioni e quello con età media dei dipendenti più elevata. Il blocco delle assunzioni, motivato con l’idea di generare risparmi pubblici tagliando stanziamenti per il settore della ricerca scientifica e più in generale restringendo il perimetro della pubblica amministrazione, non solo non ha raggiunto il risultato dichiarato (negli ultimi anni l’Italia ha sì registrato una contrazione del disavanzo pubblico, ma, al tempo stesso, ha sperimentato un continuo aumento del debito pubblico), ma ha semmai contribuito a ridurre il tasso di crescita per una duplice ragione: ha frenato le innovazioni prodotte dal settore pubblico e ha reso più difficili gli investimenti privati come conseguenza del peggioramento del funzionamento della pubblica amministrazione.

L’idea di accrescere le dimensioni del settore pubblico e, in particolare, del settore della ricerca scientifica potrebbe avviare un processo di radicale controtendenza rispetto a quanto fatto dai Governi italiani degli ultimi decenni. Una radicale inversione di tendenza che si rende necessaria a fronte del palese fallimento delle politiche di moderazione salariale e di sottofinanziamento della formazione e della ricerca ai fini della crescita economica: si è trattato di misure che non hanno prodotto crescita attraverso il canale delle esportazioni e che hanno unicamente compresso la domanda interna.


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