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Il sapere indifferente

Al tempo di Internet esiste solo "la cultura orizzontale", come spiega il saggio di Solimine e Zanchini. Ma davvero si può prescindere dai mediatori lasciando tutto in mano agli algoritmi?

20/02/2020
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la Repubblica

SImonetta Fiori

È un libro ricco di domande, più che di risposte definitive, il saggio su La cultura orizzontale che Laterza pubblica in questi giorni. Anche perché è difficile tracciare linee nette in un terreno fluido, perimetrato da confini molto labili. E il merito degli autori, Giovanni Solimine e Giorgio Zanchini, è proprio quello di mettere a fuoco i tempestosi mutamenti nel diario di bordo di noi mediatori disarcionati: insegnanti, editori, giornalisti, professori, bibliotecari e librai, catapultati nell’ultimo decennio in un ambiente radicalmente modificato. Come si rinnova la produzione culturale nel nuovo ecosistema della rete? Come cambiano la trasmissione della conoscenza e le sue forme di ricezione? E — domanda essenziale! — noi nati fino ai primi anni Ottanta del secolo scorso, quindi formati secondo paradigmi del sapere tradizionale, siamo in grado di cogliere fino in fondo i processi in atto?

Indipendentemente dall’ultima risposta, prima di avventurarsi nel miliardo di siti presenti nel web, è consigliabile lasciare a casa le antiche diatribe tra apocalittici e integrati, "tardoumanisti" e "tecnoentusiasti", anche perché in rete è ormai trasmigrata la massima parte degli oggetti culturali più tradizionali, dai trenta milioni di volumi di Google Books allo sterminato patrimonio della Digital Public Library of America. E dentro il web si svolge ormai una parte importante del nostro lavoro culturale, per non dire dei nostri figli che non concepiscono la vita senza connessione.

Più che difendere vecchi fortilizi, è utile riflettere su che cosa è morto dell’antica organizzazione del sapere e, soprattutto, da cosa è stato sostituito. Quello che è venuto meno, in questo primo ventennio del XXI secolo, è il tradizionale assetto verticale della conoscenza, un asse che distingueva "il mondo del sapere colto", strutturato, incarnato dall’università e dalla ricerca, dal "mondo del sapere diffuso", legato alla vita delle comunità. Oggi — ci fanno riflettere gli autori — non esiste più distinzione tra le diverse forme di cultura, e non c’è più differenza tra i produttori e i consumatori, tra chi elabora e trasmette conoscenza e chi la riceve, tanto che è nata la nuova figura del prosumer , un po’ producer e un po’ consumer . Da qui la nuova configurazione orizzontale del sapere, al quale tutti possono costantemente accedere, senza gerarchie né distinzioni, in un’«esplosione della conoscenza» — come rileva Peter Burke — che non ha eguali in altre stagioni della storia umana. Ma sapere tante cose significa anche capirle? Accumulare un’infinità di dati, notizie, informazioni di vario argomento significa anche cogliere il significato profondo dei processi?

Qui intervengono i cognitivisti che cominciano a metterci in guardia. Perché è vero che in questi anni abbiamo maturato un nuovo modo di leggere che è onnivoro, rapido, frammentato, tagliato sulla velocità e sulla dispersione della rete e allo stesso tempo utile nella scansione fulminea del testo scritto, e tuttavia stiamo perdendo quella che Maryanne Wolf chiamava la «pazienza cognitiva», il sentimento della complessità, la capacità di riflettere e di discernere, di tracciare analogie o di portare a compimento ragionamenti deduttivi. Con una conseguenza che è anche civile: la perdita del valore politico della cultura, intesa come strumento di emancipazione delle masse. Se cultura è orizzontalità e ricezione passiva, quantità e velocità, difficile che stimoli crescita e progressione («Nella modernità liquida la cultura non ha più un volgo da illuminare ma clienti da sedurre », sostiene Zygmunt Bauman).

La rete potrebbe essere sì una potente arma di emancipazione, ma solo a condizione che si abbiano le bussole per attraversarla. E quindi a condizione che si possiedano le competenze culturali per resistere alle nuove gerarchie, non meno autoritarie delle vecchie: i poteri che detengono i nostri dati personali. Quella della disintermediazione — sostengono a ragione Solimine e Zanchini — è una pura illusione. I mediatori ci sono eccome, solo che non hanno più le parvenze dell’antica casta di critici, giornalisti e studiosi ma le maschere invisibili degli algoritmi che ci fanno le proposte sulla base dei nostri gusti.

Le conseguenze di questa nuova organizzazione culturale — "policentrica", "mutevole", "disordinata", "vitale" — sono più evidenti in quella che l’Istat ha definito la generazione delle reti, i nati dal 1996 al 2015, formati in ambito digitale e perennemente connessi. Ed è sulla loro scarsa famigliarità con libri e giornali che gli autori del saggio hanno misurato la radicalità dei cambiamenti.

Se fino a dieci anni fa, gli indici di lettura più alti appartenevano ai più giovani, nel tempo si è registrato proprio in questa fascia di età un progressivo declino della "forma libro" come strumento di accesso al sapere. Ma il mutamento più drastico appare nel rapporto con i giornali: i ragazzi s’imbattono nelle notizie per caso, non per scelta. L’incontro avviene sulle piattaforme social di Facebook e di Instagram o tramite gli aggregatori di notizie, non negli spazi certificati degli organi di informazione. Alla casualità s’affianca un’altra categoria significativa che è quella della gratuità: rispetto alla generazione precedente, i ventenni di oggi sono meno disposti a spendere per l’informazione, la musica e il cinema. Come se la cultura non implicasse un’industria complessa in cui opera una moltitudine di lavoratori.

Ci sono vie d’uscita? Il seminario svolto ieri a Roma nella casa editrice Laterza, con Sara Bentivegna e Marino Sinibaldi, sembra indicarne qualcuna: il mediatore del futuro non dovrà limitarsi a dare significato e ordine all’offerta culturale, ma dovrà anche fornire collegamenti e connessioni nella più vasta cultura digitale. Si muoverà per vie orizzontali, ma senza mai smarrire le stelle polari. E quindi sarà costretto a sollevare la testa, riscoprendo il tanto vituperato mondo verticale. Alle gerarchie della conoscenza è impossibile sfuggire.


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