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Il robot non ci toglie lavoro. Basta investire sulle persone e la tecnologia produrrà posti

La tecnologia non distrugge solo vecchi modelli occupazionali, ma crea anche nuovi posti Per beneficiare del cambiamento è però necessario investire sulla formazione e sul capitale umano

12/02/2018
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la Repubblica

Il rapido progresso tecnologico, dalla automazione delle fabbriche alla diffusione dei robot intelligenti, alla crescita della digitalizzazione, fino all’intelligenza artificiale, è percepito dall’opinione pubblica della maggior parte dei paesi occidentali come una minaccia profonda al futuro del lavoro.

Ogni giorno i media riportano esempi di come le opportunità di lavoro si ridurranno drasticamente nei prossimi decenni a causa delle nuove tecnologie. Sembra che tutti i mestieri e le professioni siano a rischio, dal camionista al medico, dal bancario all’avvocato, dal gestore di fondi al consulente: a breve sarà un computer a guidare le auto e i camion, a fare le diagnosi e curare le malattie, a gestire le nostre finanze, ad offrire opinioni legali e a scegliere titoli in cui investire. Persino la professione di giudice potrebbe essere a rischio. Uno studio recente dell’economista di Harvard Sendhil Mullainathan dimostra che gli algoritmi dell’intelligenza artificiale sono in grado di comminare sentenze nei processi penali meglio del giudice medio, perché riescono a prevedere con più precisione le probabilità di reiterazione del reato.

Il quadro che emerge dai resoconti dei media, sia in Europa che negli Stati Uniti, è profondamente inquietante, perché descrive un mondo in cui le macchine sostituiscono gli esseri umani nelle fabbriche e negli uffici a ritmo sempre più accelerato. Man mano che i computer diventano più potenti e l’intelligenza artificiale più sofisticata – si racconta - le aziende si libereranno di un numero sempre maggiore di figure professionali. Il futuro che viene prospettato vede diminuire le possibilità di impiego per la maggior parte dei lavoratori “normali”, professionisti compresi. Il bestseller “The Second Machine Age” di Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, esemplifica l’opinione dominante. Sostiene che il progresso tecnologico, nella sua corsa inarrestabile, lascerà indietro milioni di persone e che i decenni futuri saranno durissimi per i lavoratori dotati di competenze e abilità “ordinarie”, perché i computer, i robot e altre tecnologie digitali acquisiscono quelle competenze e abilità a un ritmo straordinario.

Non sorprende, allora, che ci sia una preoccupazione profonda nell’opinione pubblica di molti paesi occidentali. I sondaggi ci dicono che sia in Europa che negli Usa la maggioranza dei cittadini percepisce il cambiamento tecnologico come una minaccia ai propri mezzi di sostentamento, più che come fonte di opportunità.

Paradossalmente, a due secoli dalla pubblicazione del Capitale di Marx e a vent’anni dal crollo dei regimi comunisti, la teoria marxiana secondo cui l’automazione è destinata a impoverire i lavoratori eliminando la domanda di manodopera non ha mai goduto di tanta popolarità e diffusione.

In realtà, il futuro del lavoro è probabilmente meno fosco e certamente più complesso e interessante di come viene normalmente presentato.

Il rapido progresso tecnologico e il suo effetto sul mondo del lavoro non sono una novità degli ultimi anni, ma sono presenti nelle economie occidentali fin dagli esordi della Rivoluzione Industriale. Messo in prospettiva storica, il cambiamento tecnologico che stiamo attraversando in questi anni non é uno dei più profondi.

Nel 1918, esattamente un secolo fa, il 60 per cento della manodopera italiana era impiegata in agricoltura. Oggi in quel settore resta solo il 5 per cento degli occupati. Nuove tecnologie che fanno risparmiare manodopera – dai trattori ai fertilizzanti chimici – hanno decimato l’occupazione nel settore che un secolo fa era quello principale dell’economia italiana. Queste tecnologie permettono ad un numero piccolissimo di operai agricoli di fare oggi il lavoro che milioni di persone facevano a mano un secolo fa. Rapportato alla forza lavoro attuale, si tratta di un calo di 13 milioni di posti di lavoro. Ovviamente non significa che il mercato del lavoro italiano abbia perso quel numero di occupati in maniera permanente. Nei decenni successivi, nuove industrie e nuovi mestieri sono stati creati e hanno assorbito i 13 milioni di persone che altrimenti avrebbero lavorato in agricoltura.

Lo stesso vale per il settore manifatturiero. Al suo apogeo nel 1985, impiegava un terzo della manodopera italiana. Oggi l’occupazione del settore si è ridotta di più della metà. Il lavoro operaio continua a diminuire anno dopo anno come conseguenza dell’automazione delle fabbriche.

La stessa tendenza è presente in tutte le economie avanzate, dagli Usa al Giappone, dalla Francia alla Germania. Nelle fabbriche moderne i robot sono sempre più diffusi, e si impiegano sempre meno umani. Nel nuovo stabilimento Tesla della Silicon Valley, in cui si producono le auto elettriche più avanzate che esistono sul mercato, ci sono robot che stanno costruendo i robot che assembleranno le vetture del nuovo modello.

Nonostante queste profonde trasformazioni in agricoltura e manifattura, il numero complessivo di posti di lavoro non sta diminuendo nelle economie occidentali. In Italia, come in tutti gli alti paesi sviluppati, la percentuale degli occupati sulla popolazione totale è più alta oggi rispetto a cent’anni fa. La percentuale dei disoccupati subisce fluttuazioni cicliche – cresce nelle fasi di recessione e diminuisce in quelle di espansione – ma non aumenta nel lungo periodo.

Com’è possibile?

Perché nonostante i milioni di posti di lavoro perduti, prima in agricoltura e poi in manifattura, le economie moderne registrano un tasso di occupazione costante o in crescita?

I motivi fondamentali sono due e vengono spesso trascurati nel dibattito sugli effetti del progresso tecnologico.

Innanzitutto l’impatto delle nuove tecnologie sull’occupazione non è univoco, ma è duplice, come ha dimostrato l’economista del Mit David Autor. Da un lato l’automazione si pone come sostituto della manodopera.

Molte, probabilmente la maggior parte, delle tecnologie impiegate sul luogo di lavoro sono introdotte per risparmiare manodopera.

Che si tratti di catene di montaggio automatizzate, di trattori o di algoritmi di intelligenza artificiale, l’obiettivo principale delle nuove tecnologie è sostituire la manodopera umana con quella automatizzata, per ridurre il costo del lavoro. Ma l’automazione ha anche un ruolo complementare alla manodopera, nel senso che ne aumenta la produttività e di conseguenza accresce la domanda di certe tipologie di lavoratori.

Il primo effetto produce una riduzione dell’occupazione e dei salari, il secondo un aumento.

Se l’opinione pubblica dei paesi industrializzati nutre sempre più timori nei confronti del progresso tecnologico è perché i media e il dibattito pubblico tendono a concentrarsi sul primo effetto, quello negativo, ignorando completamente il secondo, che è invece positivo.

In molti casi il secondo effetto è più forte del primo. Un esempio interessante è rappresentato dal settore bancario.

Una delle innovazioni tecnologiche più importanti in questo settore è stato il bancomat, inventato per risparmiare manodopera e ridurre il costo del lavoro per le banche, consentendo ai clienti di prelevare denaro ed eseguire molte operazioni senza bisogno dell’ausilio di un impiegato.

Sarebbe logico attendersi che l’introduzione del bancomat abbia ridotto significativamente il numero di posti di lavoro dei bancari, o persino che li abbia azzerati. Ma l’economista James Bessen ha scoperto che invece di ridurre l’occupazione, l’introduzione del bancomat ha causato un aumento di 50.000 posti di lavoro negli Usa.

Bessen sostiene che la riduzione del volume delle tradizionali operazioni di cassa allo sportello ha dato l’opportunità ai cassieri di specializzarsi in nuove funzioni di “rapporto con la clientela”. Da quando è stato inventato il bancomat, le banche utilizzano sempre di più gli addetti allo sportello per stabilire un rapporto col cliente, informandolo su servizi supplementari come carte di credito, prestiti e prodotti finanziari. Questo esempio non è unico: molte altre innovazioni introdotte sul luogo di lavoro hanno un effetto analogo sul tipo di mansioni e di specializzazione degli impiegati.

Un ulteriore importante motivo per cui il mercato del lavoro delle economie moderne tende a creare nuova occupazione quando la tecnologia distrugge le vecchie occupazioni è la crescita della domanda di servizi. Anche quando distruggono posti di lavoro, le nuove tecnologie aumentano la produttività del lavoro, e quindi i salari, facendo crescere di conseguenza la domanda di servizi. Negli anni Cinquanta un operaio della General Motors produceva in media sette auto l’anno. Oggi, grazie alle nuove tecnologie, ne produce 29.

Significa ovviamente che oggi alla General Motors ci sono meno operai che producono auto, ma significa anche che quelli rimasti sono più produttivi e ricevono salari più elevati. Questo comporta un aumento della domanda di servizi e quindi nuovi posti di lavoro, ma al di fuori del settore manifatturiero. L’occupazione nei settori della cultura, dell’intrattenimento, della ristorazione, dell’estetica e del fitness cresce a ritmi molto rapidi.

Negli Usa ad esempio l’industria della salute è il settore dei servizi che ha registrato il più rapido incremento occupazionale, assorbendo ogni anno milioni di nuovi dipendenti. In tutti i paesi occidentali, maggior reddito significa maggiori spese per la salute, il benessere e la cultura.

Il mercato del lavoro non è quindi un soggetto statico e nuovi posti di lavoro e nuove occupazioni tendono ad emergere e a sostituire quelli perduti.

I media offrono una visione pessimistica e monodimensionale del futuro del lavoro, una visione che contrasta con l’esperienza delle rivoluzioni tecnologiche degli ultimi cento anni.

La tesi secondo cui la rivoluzione tecnologica del ventunesimo secolo porterà via il posto di lavoro alla maggior parte di noi, lasciandoci in gran parte disoccupati, mentre robot e computer ci sostituiranno nelle fabbriche e negli uffici, rappresenta a una concezione ingenua e parziale di come funziona il mercato del lavoro.

Come i luddisti di inizio Ottocento, ovvero gli artigiani inglesi che contestavano l’automazione della produzione tessile cercando di distruggere le macchine, i critici moderni del progresso tecnologico hanno una interpretazione statica del mercato del lavoro, una interpretazione che ignora come tecnologia e lavoro interagiscano in maniera complessa e dinamica ormai da secoli.

Un’analisi più approfondita e matura permette una visione più ottimistica del futuro, un futuro in cui le nuove tecnologie cambiano il tipo di lavori, ma non necessariamente il livello generale di occupazione.

Va chiarito però che anche se l’automazione non ridurrà il numero totale degli occupati, influenzerà sicuramente il tipo di posti di lavoro e la loro collocazione geografica.

Negli ultimi trent’anni i maggiori aumenti salariali registrati sui mercati del lavoro delle economie occidentali sono andati a vantaggio dei lavoratori con alta scolarità, ovvero quelli con la laurea o il master.

Il motivo è che le nuove tecnologie sono più un complemento che un’alternativa ai lavoratori con alto titolo di studio.

Al contempo le regioni e le città che hanno sviluppato le economie più dinamiche sono quelle che dispongono di una forte base di capitale umano.

Negli ultimi trent’anni le città ad alto tasso di laureati e di imprenditori innovativi hanno avuto alti tassi di crescita sia occupazionale che salariale, mentre quelle meno dotate di capitale umano hanno perso terreno.

Il modo corretto di reagire ai timori per il futuro dell’occupazione non è disperarsi, né di opporsi in maniera pregiudiziale alle nuove tecnologie.

Bisogna invece investire nella formazione, così che il maggior numero possibile di lavoratori possa beneficiare dei profondi cambiamenti tecnologici che ci attendono.

La tesi secondo cui la rivoluzione in corso ci lascerà disoccupati rappresenta una concezione ingenua e parziale di come funziona il mercato. Ma la collocazione geografica degli impieghi cambierà

Enrico Moretti è professore di Economia alla University of California, Berkeley Studia soprattutto l’economia del lavoro e quella urbana. Ha ricevuto diversi riconoscimenti internazionali il suo libro più noto è «La nuova geografia del lavoro».


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