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Il preside anti-omofobia “Difendo i ragazzi fragili dal virus della cattiveria”

Intervista a Gianluca Dradi, preside dell’Oriani di Ravenna. Sul muro “Il preside è gay” è la scritta che un anonimo ha lasciato sulla facciata del liceo Oriani di Ravenna. Il preside, Gianluca Dradi, ha deciso di non farla cancellare

25/01/2019
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la Repubblica

Rosario Di Raimondo

Per spiegare Virgilio ha invitato in classe un giovane profugo, che ha raccontato il suo viaggio nel Mediterraneo. A distanza di anni, è convinto che la gita in Bosnia con i suoi studenti sia stata un’ottima lezione su nazionalismi e sovranismi. E quella scritta omofoba sulla facciata del liceo “Oriani” di Ravenna — «Il preside è gay» — l’ha lasciata lì in bella mostra.

L’ha definita una «pietra d’inciampo per l’intelligenza umana». Gianluca Dradi, 57 anni, un passato da avvocato e da assessore, racconta: «Sono convinto che in questo periodo strano che stiamo vivendo — basta guardare il titolo di Libero di due giorni fa — bisogna promuovere la cultura dell’inclusione. In una società contagiata dal virus della cattiveria si deve insegnare l’educazione alla tolleranza, il rispetto delle differenze».

Preside, si è fatto avanti lo studente autore della frase scritta sul muro?

«No, ma credo abbia recepito il messaggio. Ho visto delle interviste ad altri studenti. Tutti si sono dissociati anche con apprezzamenti un po’ naïf, dicendo che sono un “preside buono...”».

È così?

«La bontà la rivendico. Lo so che può sembrare un tema da libro Cuore ma è il fondamento della società e della scuola. Si sta insieme se si ha l’attitudine alla tolleranza, al riconoscersi con le persone, alla solidarietà».

Le daranno del buonista.

«Nel mio ufficio c’è una cornice d’argento con la foto di una quinta classe di alcuni anni fa. Me la regalarono gli studenti per il compleanno. Quella classe fu severamente punita con diversi sei in condotta perché cercò di sottrarre un compito in classe all’insegnante prima che venisse consegnato. Grazie a dei docenti sensibili, poi siamo andati in pizzeria e al cinema. Essere buoni non significa non fare il proprio mestiere, che nel mio caso a volte ha anche l’aspetto della rudezza».

La sua scelta di non cancellare quella frase ha acceso i riflettori sul tema del bullismo e dell’omofobia. Sono fenomeni che affrontate spesso?

«Di recente ho sospeso uno studente perché insultava con frasi omofobe un compagno di scuola.

Io non so se siano aumentati i casi di omofobia. Posso dire che riguardo al bullismo vediamo la punta dell’iceberg. I social accentuano questo disagio. Se guardo alcuni profili Facebook dei ragazzi vedo identità preconfezionate, tutti felici, in situazioni belle e di successo. Ma chi è solo diventa ancora più solo.

Vedo più fragilità nelle giovani generazioni, vedo aumentare casi di depressione, anoressia, frustrazione. Per questo i ragazzi vanno difesi dall’intolleranza».

Da qui nasce l’idea di lasciare la sua pietra d’inciampo?

«È la sintesi di un’espressione più articolata della lettera ai Romani di San Paolo: devi inciampare e percepire lo scandalo, lo sfregio al rispetto della diversità».

La diversità sessuale o del colore della pelle, per esempio.

«Nel primo capitolo dell’Eneide, Enea peregrina nel Mediterraneo, ha un naufragio e subisce l’ostilità dei Cartaginesi. Virgilio scrisse: “L’asilo della sabbia ci negano”.

Quanto è attuale? Non basta la lezione, il ragionamento è fondamentale. Bisogna aiutare i ragazzi a cambiare punto di vista. E allora, durante la lezione, inviti un giovane profugo, un Enea di migliaia di anni fa. Ho organizzato un incontro così».

Non si studia solo sui banchi.

«Una volta andai in viaggio con gli studenti in Bosnia, che porta ancora i segni di una guerra fratricida. Dormimmo nelle case delle famiglie bosniache o nelle comunità di giovani cristiani e musulmani, dove si cerca di ricostruire un tessuto. Pranzammo con le donne che raccoglievano fondi per analizzare geneticamente i reperti di ossa e identificare le persone. Una sera a Mostar non c’era nulla da fare e i ragazzi si misero a giocare a rubabandiera. Arrivarono frotte di bambini bosniaci che volevano giocare con loro. Io penso che se oggi quegli studenti sentono parlare di nazionalismo o di concetti analoghi, capiscono che non è una buona cosa. Hanno visto il dolore di una società distrutta. Fu un’esperienza toccante per tutti».


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