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Il Patto per la ricerca di Fioramonti: "Così avvicineremo università e industrie"

Dieci le richieste alle imprese. Tra queste, "il 3 per cento degli utili deve andare in innovazione, metà degli investimenti devono essere nella sostenibilità". In cambio meno tasse per chi fa studi avanzati e i privati nella futura Agenzia nazionale. Il ministro: "Sono preoccupato perché le risorse per scuola e università sembrano poche"

24/10/2019
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la Repubblica

Corrado Zunino

Ha chiesto alle imprese italiane di sottoscrivere un Patto per la ricerca, il ministro dell’Università e della Ricerca. Questa mattina Lorenzo Fioramonti ha invitato tutti i presenti - i responsabili dell’innovazione di Eni ed Enel, Terna e Leonardo, i presidenti di Poste e Ferrovie dello Stato, il presidente della Conferenza dei rettori - ad avvicinare l’industria all’università italiana, a far crescere l’investimento privato in ricerca fino alla quota minima del 3 per cento rispetto agli utili prodotti. Non ha potuto dare garanzie, tuttavia, proprio sul fronte pubblico: “Sono personalmente preoccupato perché le risorse per la scuola, l'università e la ricerca nella prossima Legge di bilancio sembrano essere poche. Sono molto lontane da quello che era stato l'obiettivo iniziale”.

Fioramonti aveva preparato questo incontro-seminario per un anno, nel periodo in cui era viceministro con delega all’Università di un ministro nemico. Ora – in questa mattina al Miur – ha declinato i dieci punti attraverso i quali proverà “a rafforzare la collaborazione tra Università, Alta formazione artistica, musicale e coreutica, Enti pubblici di ricerca e imprese per rilanciare l’economia italiana in chiave sostenibile”.

“Rischiamo il declino”

Ha detto Fioramonti in apertura: “La politica economica degli ultimi trent’anni in Italia non ha saputo cogliere l’importanza della ricerca, pubblica e privata, come volano d’innovazione e sviluppo, nonostante i rapporti di istituzioni internazionali e della Commissione europea. Questo ha contribuito a rendere il Paese meno resiliente di fronte alle sfide contemporanee, dalle mutazioni economiche a quelle tecnologiche, dai cambiamenti climatici alla riconversione industriale in chiave sostenibile condannando l’Italia a una serie di stagnazioni e recessioni con la prospettiva sempre più concreta che s’inneschi un percorso di declino”.

Troppi nostri ricercatori talentuosi, “che avrebbero potuto creare nuove imprese in tutti gli ambiti del sistema produttivo, in particolare nei settori altamente tecnologici”, sono stati costretti a lasciare l’Italia per approdare in Paesi dove il sistema politico e il tessuto imprenditoriale sono più attenti all’innovazione. Dal 2007 le risorse in ricerca nel nostro Paese sono scese di oltre 20 punti percentuali: oggi fra settore pubblico e privato si investono 23,4 miliardi di euro sulla questione (dato 2017), meno dell’1,4 per cento del Pil. “Siamo ancora lontani dal modesto traguardo che il Paese si è dato per il 2020, ovvero l’1,53 per cento, lontanissimi dalla media europea del 2 per cento e dall’Obiettivo di Lisbona, recentemente rilanciato dall’Unione europea e dall’Ocse, del 3 per cento. Se i prossimi decenni vedranno sempre di più il passaggio da un modello industriale pesante a un modello industriale pensante, “la ricerca pubblica e privata devono diventare il centro di una nuova politica industriale ed economica ancorata ai principi dello sviluppo sostenibile”.

I dieci impegni che Fioramonti chiede alle imprese, piccole, medie e grandi, sono investimenti in ricerca e sviluppo che consentano di arrivare a un minimo del 3 per cento degli utili, “a fronte di normative incentivanti, come il credito d’imposta per ricerca e formazione”. Le grandi imprese si devono impegnare a sostenere – in collaborazione con il settore pubblico – “la creazione di fondi di venture capital per stimolare start-up e iniziative ad alto potenziale innovativo puntando anche sull’attrazione di fondi dall’estero”. Già il Piano Calenda Industria 4.0 prevedeva una forte defiscalizzazione per l’acquisto di macchinari, ora il contributo di Stato si sposta sulle “risorse umane”. 

“Non esiste profitto senza sostenibilità”, dice Fioramonti. Quindi, “le imprese si impegnano a dedicare almeno il 50 per cento degli investimenti in ricerca e formazione a questo tema per migliorare costantemente la loro offerta di prodotti e servizi”. Il ministro chiede, quindi, co-produzioni con università, istituzioni Afam ed enti di ricerca: “Il modello tradizionale di trasferimento tecnologico lineare, dal mondo della ricerca a quello delle imprese, è da tempo superato. La ricerca non è un’esclusiva degli atenei, ma deve assumere sempre più i connotati di un processo trasversale all’interno della società”. Tutto questo, a fronte di interventi normativi che incentivino la terza missione, ovvero il ruolo sociale del sistema universitario, e la brevettazione, semplifichino le procedure amministrative, in particolare per quanto riguarda la proprietà intellettuale, e diano alle piccole e medie imprese accesso a strutture pubbliche di ricerca e a laboratori.

Cinque ricercatori ogni mille occupati

L’Italia soffre di una domanda di lavoro poco qualificata. Abbiamo poco più di 5 ricercatori (laureati o dottorati) ogni mille occupati, contro i 10 di Giappone e Stati Uniti e i 15 della Corea. “Le imprese si devono impegnare ad aumentare la percentuale di lavoratori con alta qualificazione, soprattutto dottori di ricerca, per una trasformazione strutturale della propria forza lavoro”.

Per spingere Il Made in Italy, lo Stato si impegna a favorire l’aggregazione delle università in poli, insieme a partner industriali di primaria importanza, in modo da sviluppare modelli di ricerca applicata e di orientamento per i giovani imprenditori. Il ministro propone, quindi, “politiche aggressive” per favorire il rientro in Italia di lavoratori con alte competenze e chiede al mondo imprenditoriale la creazione di reti di collegamento fra i ricercatori e gli imprenditori italiani residenti all’estero, “perché il Paese possa beneficiare delle loro esperienze e dei loro successi”.

Nascerà l’Agenzia nazionale per la ricerca e l’innovazione, e sarà partecipata dalle imprese italiane: “Una struttura nazionale di coordinamento della ricerca, sul modello del coordinamento dei Research Council britannici e delle Agenzie per l’innovazione israeliane” che avrà il compito di finanziare brevetti e co-produzione tra pubblico e privato, oltre al più tradizionale trasferimento tecnologico. Questa struttura potrebbe diventare la guida tecnica della politica di ricerca e innovazione del Paese.


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