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Il numero chiuso serve a tutti

I test universitari

06/09/2012
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Il Messaggero

Giovanni Sabatucci

GLI STUDENTI che in questi giorni si mobilitano, peraltro civilmente, contro i test di ammissione ad alcune facoltà universitarie motivano la loro protesta con due argomenti tra loro molto diversi e non facilmente conciliabili. Il primo è di principio e riguarda il diritto allo studio garantito dalla Costituzione, che verrebbe negato dall’applicazione del numero chiuso. Il secondo è di merito e si riferisce al livello di difficoltà o alla congruità dei quesiti sottoposti ai candidati.
Su questo punto ogni contestazione è ovviamente lecita e può essere di qualche utilità. Giusto denunciare gli errori, se ve ne sono, e discutere sui criteri. Purché si tenga presente che un test di ammissione a un corso universitario non può vertere sullo specifico delle materie che poi in quel corso verranno insegnate (e che il candidato ha tutto il diritto di non conoscere, soprattutto se non fanno parte del bagaglio scolastico), ma deve stabilire l’idoneità dello studente ad affrontare quel tipo di studi: dunque valutarne la preparazione di base (un compito cui la scuola superiore troppo spesso abdica, viste le altissime percentuali dei promossi alla maturità), oltre alla capacità di ragionare e di dare risposte in tempi rapidi. Operazione quanto mai delicata e inevitabilmente soggetta a errori, per quanto sofisticate possano essere le tecniche di elaborazione e valutazione dei test. Ma un vaglio basato sul merito, per quanto imperfetto, è comunque preferibile a una selezione dettata dal caso o, peggio, dal privilegio economico. Sempreché, naturalmente, si convenga sulla necessità di un vaglio. E qui veniamo alla questione di principio, quella del diritto allo studio, sollevata alquanto impropriamente. L’istruzione «obbligatoria e gratuita» di cui parla l’art. 34 della Costituzione è quella di base, relativa ai ragazzi dai sei ai quattordici anni (il limite è stato alzato a sedici e dovrebbe secondo me essere elevato ulteriormente fino a coincidere con l’ingresso nella maggiore età: ma questo è un altro discorso). Per quanto riguarda gli studi superiori, lo stesso art. 34 si limita ad affermare il diritto ad accedervi dei «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi» e il dovere dello Stato di facilitare questo accesso «con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». Dunque per merito, e non per una sorta di diritto innato: come dire che tutti possono partecipare a una gara, ma a nessuno è garantito in partenza di vincerla. In Italia come in qualsiasi altro Paese.
Qualcuno si potrebbe chiedere per quale motivo si debba negare a tanti ragazzi la possibilità di coltivare un’illusione, di impiegare il proprio tempo, nell’attesa di un lavoro che non si trova, in studi che spesso non si concluderanno mai. La risposta è semplice: perché l’università costa, anche in ragione del numero di studenti che ospita; e questo costo è coperto solo in misura ridotta (in media intorno a un quarto, ma le stime variano) dalle tasse di iscrizione, ovvero dal contributo di chi fruisce del servizio. Il resto è a carico della fiscalità generale, dunque di tutti i contribuenti, ricchi e poveri, anche di quelli che non sono mai andati all’università e non ci manderanno mai i loro figli. Un’imposta progressiva alla rovescia, che favorisce i più abbienti, oltre ai soliti evasori che fruiscono delle riduzioni riservate ai bisognosi.
Anziché chiedere l’abolizione del numero chiuso, sarebbe allora il caso di studiarne l’introduzione anche nelle facoltà che sinora non lo hanno sperimentato. Mi chiedo, per citare un caso che conosco bene, che senso abbia ammettere a una facoltà umanistica studenti che non conoscono l’ortografia e la sintassi, per non dire della punteggiatura. Si obietta che in Italia il numero dei laureati è, nonostante tutto, inferiore alla media dei Paesi industrializzati. Ma questo dipende non tanto dal basso numero delle iscrizioni, quanto dall’alto tasso di «mortalità» universitaria degli iscritti. Lasciamo dunque l’università a quelli che possono e vogliono studiare sul serio. Risparmiamo spazi e risorse, scarsi gli uni e le altre, a vantaggio dei «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi»: come ci suggerisce, anzi ci impone, il dettato costituzionale.