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“Il nostro è un corpo malato ci vogliono energie nuove”

QUALCHE anno fa ha fatto parlare di sé con I baroni (Feltrinelli), libro dal titolo esplicito nel quale raccontava in forma narrativa il suo calvario nell’accademia italiana e la sua fuga da Palermo a Oxford, dove insegna dal 2007 Letterature comparate e Letteratura del Rinascimento. Oggi Nicola Gardini, professore cinquantenne, osserva con distacco partecipato la situazione italiana

29/07/2014
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la Repubblica

Raffaella De Santis

QUALCHE anno fa ha fatto parlare di sé con I baroni (Feltrinelli), libro dal titolo esplicito nel quale raccontava in forma narrativa il suo calvario nell’accademia italiana e la sua fuga da Palermo a Oxford, dove insegna dal 2007 Letterature comparate e Letteratura del Rinascimento. Oggi Nicola Gardini, professore cinquantenne, osserva con distacco partecipato la situazione italiana, ha un saggio in 9+uscita a settembre con Einaudi intitolato Lacuna, in cui non parla di politiche universitarie ma di procedimenti narrativi, e si augura che la riforma dell’età pensionabile sia il primo passo per un ricambio generazionale dei professori nei nostri atenei.
Professore, come funziona il sistema inglese?
«In Inghilterra i professori vanno in pensione a 67 anni, dunque più o meno alla stessa età prevista dalla riforma. La differenza è che lì nessuno si lamenta. Eppure lasciare le università inglesi significa davvero uscire di scena: una volta fuori è impossibile continuare ad esercitare forme di influenza e ingerenza, come accade in Italia».
Dunque è giusto pensare di rottamare i professori?
«La parola rottamazione è dettata dal risentimento ed è carica di una certa emotività. È legittimo che ci sia un cambio di guardia, che si faccia spazio alle nuove generazioni. L’insegnamento universitario è un lavoro che richiede energia. Più si va avanti con gli anni, più si ha la testa impegnata in altre cose».
Lei pensa che i sessantenni siano tutti baroni?
«È vero che esistono anche baroni in pectore trentenni, ma per statuto il barone deve aver
superato i 60 anni. Il potere accademico si acquista attraverso contrattazioni di anni. Non credo sia una perdita se si fa spazio ai giovani. In realtà questa riforma è una misura antibaronale ».
Il rischio è che si mandino via persone senza che vengano sostituite e che le università non facciano
nuove chiamate.
«E invece non deve essere una misura per risparmiare ma per ringiovanire il sistema, per investire in nuove energie intellettuali. Ci sono molti atleti in panchina che non aspettano altro che riuscire a giocare la partita».
Può bastare la riforma delle pensioni a cambiare un sistema?
«È un primo passo. Certo, l’università italiana è un corpo malato, un luogo allo sbando, sarebbe meglio intervenire su più fronti. Per esempio iniziare a distinguere tra un ateneo che funziona e uno che non funziona, aprire agli stranieri e cambiare radicalmente il rapporto tra docente e discente per aiutare gli studenti a sviluppare senso critico. In Italia domina il modello feudale, i giovani sono bravi ma passivi, asserviti ai professori dai quali dipende il loro futuro».
Più che una rivoluzione burocratica quindi servirebbe una rivoluzione culturale?
«L’accademia risente del degrado morale del paese, vive una mostruosa asfissia. E’ maschiocentrica, familista e chiusa agli stranieri. Retta da una logica che andrebbe combattuta».
Crede che i giovani sapranno essere diversi?
«Certo potrebbero riprodurre gli stessi ingranaggi, ma bisogna dargli fiducia. Impensabile che stiano con la testa sott’acqua troppo a lungo».