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Il flop della prova nata per evitare scandali

IL RETROSCENA / LE REGOLE INTRODOTTE DALLA RIFORMA GELMINI PER PORRE UN FRENO ALLE SPARTIZIONI

26/09/2017
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la Repubblica

Corrado Zunino

Le ha introdotte la Legge Gelmini, le Abilitazioni scientifiche nazionali. Nel tentativo di togliere potere discrezionale ai baroni al vertice della catena dei concorsi locali. I tecnici di un ministero dell’Istruzione che nel 2010 avrebbe tagliato un miliardo di euro alle università stavano cercando un modo “nazionale e unico” per interrompere la litania di denunce che, soprattutto a Medicina e Giurisprudenza (il settore disciplinare i cui accordi illegittimi sono stati scoperchiati dall’inchiesta “Chiamata alle armi”), seguivano sempre le vecchie prove d’esame.

L’idea aveva senso: estrarre a sorte una commissione di 5 docenti, un membro straniero, e farle valutare ogni ricercatore che aspirava a diventare associato e ogni associato che aspirava a diventare ordinario. «Sì»: abilitato, proceda per il concorso. «No», ripassi. Questo doveva avvenire alla fine di un’analisi il più possibile scientifica, basata sui lavori prodotti dai candidati in tempi non troppo lontano e sul livello delle riviste su cui avevano pubblicato. Una soluzione asettica, segno della diffidenza del legislatore verso un’accademia che aveva spesso usato l’autonomia per produrre catene di cooptati per amicizia e consanguineità.

Il primo problema del nuovo meccanismo — siamo alla terza tornata Asn, già rivista e allungata, e la ministra Fedeli annuncia nuove revisioni — si è osservato con le riviste scelte dall’Agenzia di valutazione Anvur. Nel bouquet dei periodici che facevano punteggio c’erano Suinicoltura eStalle da latte, Yacht capital e La vita cattolica di Udine. Poi ci si è accorti che spesso il presidente straniero, affaccendato e lontano, non si presentava. Un prof di Valencia, per dire, non leggeva né parlava l’italiano: non poteva giudicare nessuno.

La classe docente ha contribuito in proprio a trasformare le abilitazioni in un nuovo circo dell’inganno. Nella prima tornata tre insigni medievisti hanno artefatto i curriculum per poter diventare commissari e giudicare 900 candidati. Il presidente, docente a Cagliari, aveva inserito testi sui migranti sardi del Novecento e sugli indiani Anasazi: difficile dimostrarne l’attinenza con la storia medievale. Il collega di Parma, responsabile di collana per una piccola casa editrice, si era attribuito la curatela di monografie altrui. L’abilitazione di Storia dell’arte, denunciarono in trenta, si trasformò «in un concorsone per premiare accoliti e amici degli amici». I commissari avevano promosso coloro con i quali avevano collaborato o avevano pubblicato nelle riviste da loro dirette o grazie a fondi da loro veicolati. In quella disciplina un candidato superò l’esame anche se prese tre giudizi negativi su cinque. Un altro presentò 22 contributi e glie ne conteggiarono 25,71. In un giudizio nella disciplina Storia del cristianesimo si è letto: «La commissione si riserva di abilitare anche chi non soddisfi i criteri». Facciamo come ci pare, alla vecchia maniera. Erano gli stessi arbitri che avevano valutato i curricula di ogni aspirante in un minuto e mezzo e messo a verbale un giudizio ogni 27 secondi. Sì, i giudici riuscirono ad attribuire a un candidato una monografia sulla peste che non esisteva e definirono «collaboratore » di un secondo candidato uno studioso defunto il 3 marzo 1900.


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