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Il diploma tecnico-professionale fa lavorare più della laurea

L'Ocse mette sotto accusa il sistema di orientamento

19/09/2017
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Il Messaggero

Emanuela Micucci

Il diploma di istruzione tecnica o professionale in Italia dà più lavoro della laurea. Ma solo a breve termine. Per i diplomati degli istituti tecnici, professionali e dell'IeFp si preannunciano tempi bui. L'Ocse nel suo Education at a Glade 2017 delinea le sfide dell'istruzione tecnica e professionale in Italia. Presentato la scorsa settimana alla Luiss a Roma, lo studio analizza i sistemi educativi di 34 Paesi nel mondo utilizzando dati del 2012, 2014 e, per alcuni indicatori, del 2016, non includendo, dunque, gli anni della Buona Scuola. La maggior parte dei giovani italiani è iscritta a un percorso di studi superiore a indirizzo tecnico-professionale, il 42%, contro il 33% che ha scelto un liceo: il 16% in più della media Ocse. Un comparto che garantisce buoni tassi di occupazione per i giovani: ben il 68% dei 25-34enni, sensibilmente superiore sia ai quello dei liceali (49%) sia a quello dei laureati (64%). Una performance in cui i diplomati tecnico-professionali spiccano soprattutto nei primi anni dopo il diploma, sottolinea Francesco Avvisati dell'Ocse.

Competenze, sfida per la governance. «Il comparto tecnico-professionale viene preferito solo dai giovani, come suggerisce l'età media del conseguimento del diploma professionale inferiore a quella Ocse», osserva Avvisati. «Invece, negli altri Paesi è scelto anche dagli adulti per riqualificarsi professionalmente». In Italia la partecipazione degli adulti a percorsi di formazione formale o informale resta tra le più basse dell'area Ocse: il 19%% contro il 39% della media internazionale, il 46% della Germania, il 45% degli Usa o il 34% della Spagna.

Un problema sul lungo periodo. «Il cambiamento dell'economia», infatti, «crea nuove sfide per questo settore dell'istruzione», sottolinea Avvisati ricordando che gli scenari del mercato del lavoro dei prossimi anni prevedono un aumento di posti di lavoro per chi possiede livelli di competenza alti i laureati, o elementari. Al contrario per i lavoratori con competenze intermedie, i diplomati, le prospettive occupazionali si ridurranno. Se i diplomati tecnico-professionali non saranno preparati e «non avranno opportunità per l'aggiornamento ulteriore delle loro competenze in azienda o nell'ambito delle politiche attive del mercato del lavoro, richiederanno di subire i cambiamenti futuri dell'economia e di perdere il vantaggio occupazionale iniziale». Tanto più che, prosegue Avvisati, «le soluzioni disegnate per le grandi aziende, come i fondi interprofessionali, non sempre funzionano per le piccole e medie imprese, che caratterizzano l'economia italiana». Orientamento, formazione continua, definizione dei curricoli: alcuni dei temi prioritari in gioco. Chiamando sulla scena attori diversi: dal Miur al lavoro alle regioni. «In un dialogo continuo tra sistema delle competenze e mondo del lavoro», nota Avvisati. «Perché sono problemi e responsabilità di governance». Vi interviene solo in parte la Buona Scuola. Attraverso l'alternanza scuola-lavoro, una misura che «va nella giusta direzione, ma il suo successo dipenderà dal sostegno dato a scuole e imprese per assicurare qualità». Mentre l'articolazione Its, lauree professionalizzanti e politiche attive del lavoro «per assicurare opportunità effettive di formazione continua deve essere al centro di una strategia coordinata».

Lo stesso orientamento dei neolaureati in Italia secondo l'Ocse è poco legato ai bisogni emergenti dell'economia. Basti pensare che il 39% dei laureati di primo livello proviene da facoltà umanistiche o artistiche, rispetto al 25% laureatosi in una disciplina tecnico-scientifica o al 14% in economia, che garantirebbero maggiore occupazione. Con conseguenze negative per il tasso di occupazione dei laureati. Occorre, allora, raccomanda l'Ocse aumentare la possibilità per il riorientamento in corso, prevedendo passerelle; accompagnare scelte di orientamento più consapevoli dei bisogni emergenti; rinforzare i legami tra insegnamento universitario ed economia sul territorio così come nelle politiche di sviluppo. Il Piano Industria 4.0, afferma Avvisati, dovrebbe avere misure per le politiche dell'istruzione, come i laboratori, per favorire il riorientamento del sistema di competenze nazionale.

Infine, il capitolo investimenti che vede l'Italia maglia nera nell'area Ocse per la spesa pubblica complessiva sull'istruzione. Solo il 7,1% del Pil tra la primaria e l'università, rispetto al 9,9% dell'Unione Europea e all'11,3% Ocse. Un calo del 9% per il nostro Paese rispetto al 2010, secondo il rapporto «indice di un cambiamento nelle priorità delle autorità pubbliche piuttosto che di una contrazione generale di tutte le spese governative». Tuttavia, è soprattutto sugli investimenti sull'università che l'Italia arranca. Infatti nell'istruzione scolastica l'investimento è del 4%, contro il 4,9% europeo e il 5,2% dell'area Ocse. La conferma nella somma investita nell'istruzione terziaria: 11.510 milioni di dollari contro i 16.143 della media Ocse e i 16.164 dell'area Ue. Una distanza dell'Italia pari a circa 4.650 milioni di dollari.