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Il coronavirus e le previsioni scientifiche ad uso sociale

Si entra nella zona di confine tra scienza, politica, e società che rappresenta oggi la frontiera dell’attuale ricerca: quando la ricerca cessa dunque di essere solamente accademica ma riguarda direttamente ognuno di noi e quando lo scienziato diventa il necessario interlocutore per prendere decisioni politiche e per spiegarle alla collettività

14/03/2020
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ROARS

FRancesco Sylos Labini

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Si racconta che un Faraone d’Egitto per ringraziare un suo ospite del dono del gioco degli scacchi, gli chiese cosa volesse in cambio. L’interpellato rispose che voleva solo del riso: un chicco sulla prima casella della scacchiera, due chicchi sulla seconda, quattro sulla terza e così continuando fino alla sessantaquattresima casella. La somma del grano richiesto è però più di diciotto miliardi di miliardi di chicchi, un numero astronomico. La crescita esponenziale esemplificata da questa storia è poco intuitiva ma capita spesso intorno a noi: ad esempio, gli eventi meteorologici catastrofici hanno origine da una crescita esponenziale di piccole perturbazioni.

Se si considerano i dati che sulla crescita nel tempo del Coronavirus (numero di decessi, numero di pazienti positivi in terapia intensiva, ecc.)  si trova che la crescita è ben approssimata da una curva esponenziale (si veda qui gli andamenti aggiornati nei vari paesi): questa è originata dal fatto che, al momento, il numero di nuovi casi è proporzionale al numero di casi già esistenti. In generale, i modelli di diffusione di una epidemia prevedono una crescita esponenziale iniziale seguita da un rallentamento sempre più marcato: questa avviene dopo un tempo che dipende dalla probabilità con cui una persona esposta al virus diventa infetta – bisogna lavarsi le mani per diminuire la probabilità di infezione una volta che si è stati esposti al virus – e dal numero di individui con cui, in media, si viene a contatto – e per questo bisogna stare a casa. Non sapendo quando avverrà il passaggio da una crescita esponenziale a un rallentamento della diffusione, è necessario effettuare previsioni accurate usando i big data in cui si tracciano in tempo reale la posizione e gli spostamenti di milioni di individui (ponendo non banali problemi di tutela della privacy): si effettua cioè uno studio numerico della diffusione di una epidemia su una rete complessa, la nostra società globalizzata, ed è per questo necessario effettuare calcolo intensivo con i più grandi super-computer disponibili. Questa disciplina, nota come epidemiologia computazionale (si veda qui per una introduzione), vorrebbe avere lo stesso ruolo dei calcoli che si fanno in meteorologia per la previsione del tempo. Tuttavia, mentre nell’ultimo caso si può avere un riscontro immediato della qualità delle previsioni (piove o non piove) questo è più difficile per l’epidemiologia computazionale poiché il fenomeno di diffusione è legato anche alle policy di intervento per il suo contenimento.

Per continuare nel parallelo e capire le connessioni tra scienza, politica e società, immaginiamo che un uragano si stia dirigendo verso la costa di una certa regione e il governatore di questa debba decidere se evacuare o meno una certa città. Entrambe le scelte hanno un rischio e dunque un costo: da una parte non si può sapere con esattezza se quell’uragano arriverà su quella città poiché un errore nel calcolo della traiettoria di qualche km cambierebbe completamente lo scenario. D’altra parte, l’evacuazione di una città ha un costo enorme come lo ha la non evacuazione quando una città viene colpita da un uragano (pensiamo a New Orleans). Quando si prende una decisione non conoscendo abbastanza bene l’errore della previsione della traiettoria ci si assume un rischio: quale è la soglia di rischio tollerabile da un punto di vista politico data una certa incertezza?  Dal punto di vista dei decisori politici, la previsione in probabilità di un evento catastrofico estremo è utile in pratica soltanto se a valle ci sono protocolli operativi in grado di gestire e usare informazioni con un’incertezza quantificabile e/o formulate in termini di vari scenari evolutivi con associata stima della probabilità (si veda qui per una introduzione divulgativa e qui per una trattazione più tecnica).

Il Coronavirus è come un uragano, ormai nel pieno del suo sviluppo, che sta investendo tutto il mondo (una pandemia ha detto l’OMS) ma che, a differenza di un fenomeno metereologico, può essere attenuato da decisioni politiche e comportamenti individuali opportuni. Il problema è però che nel caso specifico non c’è un protocollo ben definito da seguire e dunque tutto s’improvvisa sull’onda dell’emergenza. Tuttavia, il fatto che l’intervento esterno possa cambiare l’evoluzione del fenomeno fa sì che questo sia molto diverso da un urgano che si sviluppa a prescindere. Si entra cioè nella zona di confine tra scienza, politica, e società che rappresenta oggi la frontiera dell’attuale ricerca: quando la ricerca cessa dunque di essere solamente accademica ma riguarda direttamente ognuno di noi e quando lo scienziato diventa il necessario interlocutore per prendere decisioni politiche e per spiegarle alla collettività. Questa situazione fornisce una chiara risposta alla famosa domanda di Silvio Berlusconi “Perché dobbiamo pagare uno scienziato se facciamo le scarpe più belle del mondo”? E rende anche chiaro che le politiche che hanno indebolito sia l’università sia il sistema sanitario (dal taglio di posti letto al numero chiuso a medicina) sono state scellerate: nell’immediato è davvero difficile porvi rimedio ma è ora cambiare rotta.

Qui di seguito un bel video esplicativo della diffusione delle epidemie


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