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Il coraggio di premiare l’eccellenza

I finanziamenti europei alla ricerca

07/01/2020
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Corriere della sera

di Francesco C. Billari e Gianmario Verona

La ricerca italiana da anni soffre di un brutto male: l’inadeguatezza del finanziamento rispetto alla qualità dei ricercatori e al prestigio internazionale del nostro Paese. L’onorevole Lorenzo Fioramonti, ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, si è appena dimesso per non essere riuscito a convincere il suo governo a stanziare fondi aggiuntivi per la scuola e per l’università. Nella prima intervista da neo ministro dell’Università e della Ricerca, il professor Gaetano Manfredi, tecnico esperto e presidente della Conferenza dei Rettori delle università italiane, conferma la necessità di garantire più fondi alla ricerca. I fondi scarseggiano perché la ricerca, essenziale per lo sviluppo economico e sociale nel medio e lungo termine, non è una priorità nel dibattito politico, sempre più miope sia in propaganda elettorale sia nei fatti che ne seguono.

In questo scenario sconfortante, la tanto criticata Unione Europea ha per fortuna immaginato da alcuni anni un sistema di finanziamento alla ricerca aggiuntivo rispetto a quello previsto dai singoli Paesi. Lo ho fatto guardando agli esempi di Regno Unito e Stati Uniti, punti di riferimento nell’innovazione accademica e nella ricerca scientifica dal secondo dopoguerra, come mostrato tra l’altro dal numero di premi Nobel vinti nell’ultimo secolo. Ispirandosi anche nel nome ai «Research Councils» britannici, l’Ue nel 2007 ha fondato l’European Research Council (Erc). Da allora, quasi diecimila progetti sono stati finanziati nei Paesi Ue e in altre nazioni associate (34 in totale), con un finanziamento in crescita che ha superato i 2 miliardi di euro per il 2019, e con 7 premi Nobel assegnati a vincitori di progetti.   L’Erc finanzia, attraverso una rigorosa valutazione esclusivamente di tipo scientifico, secondo i migliori approcci internazionali, progetti che coprono tutte le aree della ricerca. Sono finanziati progetti nelle scienze «dure» (tra cui Fisica, Chimica, Matematica, Informatica, Ingegneria), nelle scienze della vita (tra cui Biologia, Medicina), nelle scienze sociali e discipline umanistiche (tra cui Economia, Giurisprudenza, Storia, Letteratura e Filosofia).

Anziché felicitarsi di questa iniziativa, che fornisce un potenziale «tesoretto»ai ricercatori italiani meritevoli e sot-tofinanziati a livello nazionale, c’è chi, come il professor Lapini sul Corriere dello scorso 5 gennaio, attacca i fondi Erc.

Anzitutto, erogherebbero troppi quattrini. «Poiché la trippa non basta più, si cala dall’alto un grosso pezzo di carne e il più forte o più scaltro lo azzanna». Premesso che, usando sempre immagini forti e metafore popolari, verrebbe da dire che «a caval donato non si guarda in bocca», troviamo surreale lamentarsi per un eccesso di finanziamento. Il finanziamento medio per progetto è coerente con le ambizioni e quindi alto (circa 2 milioni a progetto), e contribuisce al finanziamento del ricercatore capo, di altri ricercatori junior, e alla struttura che lo ospita. I progetti finanziati in modo competitivo in Italia, i Prin, hanno una media attorno ai 300 mila euro, da ripartire tra più strutture: il problema è proprio il sottofinanziamento strutturale della ricerca nel nostro paese. Si sottovalutano evidentemente i costi della ricerca scientifica di eccellenza, e in una sorta di sindrome di Stoccolma oramai ci si è abituati alle elargizioni modeste e a pioggia.

Il problema sarebbe poi che gli Erc offrirebbero «a cani sciolti» l’opportunità di trovare un «posto fisso». Anche qui: siamo tutti fan di Checco Zalone e citare il posto fisso piace anche a noi. E chi ha già un posto fisso, anche un professore ordinario, può partecipare alla competizione per l’Erc alle stesse condizioni. Ci pare però una bellissima cosa dare l’opportunità di un contratto (che peraltro non è a tempo indeter-minato ma ha la durata del progetto, fino a 5 anni) a un giovane talento (tale è chi vince un progetto altamente competitivo convincendo una commissione di ricercatori di più Paesi e discipline), o a un professore di una università internazionale che così decide di venire in Italia favorendo finalmente l’attrazione anziché la fuga dei cervelli — questo sì problema centrale per il Paese. È vero, poi, che le università possono chiamare anche per un «posto fisso» vincitori di Erc, ma questo vale essenzialmente in tutta Europa. Se il problema è il sottofinanziamento alla ricerca in Italia, questo va attaccato direttamente, e non denigrando le poche istituzioni che finanziano chi merita.

Da ultimo, Erc determinerebbe la supremazia delle science «dure» rispetto alle discipline umanistiche. Anche perché l’inglese dei progetti è oggi lingua globale della scienza (come un tempo era il latino), veicolo inevitabile per la discussione in commissioni che includono ricercatori da tutto il mondo: questo non piace al professor Lapini. Se però le discipline umanistiche fossero sottorappresentate, la soluzione sarebbe argomentare a favore di un maggiore finanziamento per loro nello stesso meritocratico schema, non cercare di gettare via il bambino con l’acqua sporca.

Attraverso un percorso lento e articolato, l’università italiana si sta di nuovo confrontando a livello internazionale nella produzione di conoscenza originale, la ricerca. Aiutiamo l’università e gli altri enti di ricerca a perseguire più velocemente questa direzione, anziché chiuderci a riccio guardando solo all’indietro e senza il coraggio di premiare l’eccellenza.

Università Bocconi