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Il confino di madri e figli

La fase 2 della diseguaglianza

21/05/2020
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la Repubblica

Melania Mazzucco

S tate a casa». Per giorni, queste uniche parole hanno interrotto il silenzio nelle strade deserte delle nostre città. La casa era diventata arca e fortezza, ufficio e studio, asilo, scuola e chiesa. Le cronache ci dicono che è stata anche ospedale, prigione, camera di tortura e camera mortuaria. È stata mondo, insomma, risucchiando dentro le mura domestiche ogni spazio ed esperienza umana possibile. Adesso che a poco a poco le porte si riaprono, l’eco di quell’ordine risuona ancora.

Ed è come sentir sbattere un cancello, che chiude fuori settant’anni di storia.

In casa staranno in molti, ma la maggior parte di loro non lo avrà scelto. I senza occupazione, i grandi anziani, le donne e i bambini.

l

continua a pagina 27 di De Luca, Giacosa, Venturi e Zunino l alle pagine 2 e 3

segue dalla prima pagina L e conquiste del lavoro (equamente remunerato e decentemente tutelato), della vecchiaia (sopravvivere alla stagione del salario e della riproduzione per godere di esistere, semplicemente, come esseri umani), della libertà femminile e di un’infanzia dedita al gioco e all’apprendimento, e salva dall’obbrobrio dello sfruttamento, sono state le vere vittorie della società occidentale. Che, affliggendosi con ipocriti sensi di colpa o alimentando paure che poi non è in grado di dissipare, è disposta a barattarle o rinunciarci. Sono le prime che dobbiamo ripristinare. Mentre pare che siano le ultime. Invece non possono attendere, perché il tempo le disgrega, e irreparabilmente.

Non è questione di comprare merci o di andare in vacanza (pure, azioni fondamentali come diritti), ma di operare perché non si generino milioni di r-e(s)clusi. La terminologia anglofona (smart working) e formule alla moda (didattica a distanza) abbelliscono realtà di oppressione e diseguaglianza.

Le donne, confinate nel privato delle stanze, hanno impiegato millenni a guadagnare lo spazio esterno (tant’è che a inizio Novecento ancora sembrava rivoluzionario rivendicare “una stanza tutta per sé”). Adesso vengono ricacciate al fornello e al tavolo, con l’unica prospettiva di pagare una baby-sitter se proprio “costrette” a tornare al lavoro. Siano santificate le baby-sitter, ma uno Stato degno di questo nome non abdica al progetto educativo delegando ai singoli la cura dell’infanzia e della formazione.

I bambini e i ragazzi hanno bisogno di un universo nel quale essere non solo figli, nipoti o clienti, ma semplicemente se stessi.

Specchiandosi negli altri di pari età — simili e diversi da loro.

La scuola pubblica per tutti è stata (meritoriamente) un obiettivo primario del giovane Stato italiano: non dimentichiamo il travaglio secolare che è costato costruirla e difenderla. Invece l’anno scolastico si chiude perché 200 giorni di frequenza non sono indispensabili, come nei peggiori anni di guerra e di bombe; le vacanze, già sconciamente lunghe, saranno di tre mesi come sempre; nessuno propone di recuperare il tempo perduto; si dichiara che forse a settembre si ricomincerà nello stesso modo, con una leggerezza che sbalordisce e offende. Ma se le condizioni transitorie — precarie, spesso penalizzanti, talvolta grottesche — attuate nell’emergenza diventassero permanenti replicherebbero l’umiliante modello delle baracche e dei container allestiti dopo le catastrofi naturali, che ci hanno consegnato il primato dell’abbandono di intere popolazioni e generazioni.

È stato ribadito da molti autorevoli docenti e maestri, finora senza troppo effetto, che studiare non significa apprendere nozioni ma confrontare pensiero e vita. E per i più piccoli — molti dei quali figli unici, dati i noti problemi di natalità di questo Paese — andare all’asilo e a scuola è l’unica occasione per imparare a giocare e a stare nel mondo. Invece sembra che sia solo questione di fornire dispositivi e connessioni, di metri quadrati delle classi, di ingressi o di scale. (Molto si potrebbe scrivere sulle scale degli istituti italiani).

Ma la scuola non è un’aula. Lo è diventata solo di recente, e non è nemmeno certo che sia un bene (la modalità risultando punitiva a causa della naturale predilezione dei bambini e dei ragazzi per il movimento e lo sfogo fisico). Si può insegnare anche camminando (il liceo peripatetico dovrebbe averlo dimostrato), apprendere all’aperto — in un cortile, portico, giardino, orto: ovunque.

Si potrà e si dovrà trovare un modo di fare lezione in tanti e a tutti, restituendo ai bambini la socialità e l’eguaglianza (almeno per qualche ora al giorno) e alle loro genitrici la professionalità. Il lavoro per una donna non deve tornare a essere una necessità né un privilegio; la comunità è la condizione essenziale di ogni sviluppo.

Immaginiamo un futuro che non somigli al passato.


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