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Il capitale femminile all'università

Michela Marzano

19/10/2018
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la Repubblica

Che in cattedra ci siano poche donne non è vero solo in Italia.

Nonostante i recenti tentativi di investire sul "capitale femminile", anche in Francia è purtroppo così. E questo nonostante le studentesse, le dottorande e le ricercatrici lavorino talvolta di più, talora siano persino più brillanti. Com’è possibile? Cosa impedisce alle donne di progredire nella carriera accademica?

Ovviamente, parlando di ricerca e di università, è assurdo anche solo immaginare di risolvere la questione della parità usando l’escamotage delle "quote rosa". Esistono competenze e qualità oggettive di cui si deve essere in possesso per partecipare a un concorso e sperare di vincerlo. Non si tratta quindi di puntare sulla "quantità", ma di interrogarsi su cosa freni ancora oggi tante donne impedendo loro di fare carriera. Se è vero infatti che continua ad accadere che di una donna ordinario si dica: «L’ha portata in cattedra l’amante» – come ha ammesso l’altro ieri il professor Vincenzo Barone, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa – e che tanti colleghi uomini facciano fatica a tollerare che una donna possa diventare "ordinario" prima di loro, è anche vero che il problema centrale, per molte donne, è da un lato la difficoltà di conciliare la vita familiare con la vita professionale, e dall’altro la scarsa fiducia in loro stesse. Non basta essere preparate per ottenere una cattedra. Non basta studiare perché le proprie competenze siano riconosciute. Bisogna anche "insistere", come ha sottolineato la professoressa Annalisa Pastore, la prima donna ordinario nella classe di Scienze della Normale dopo 208 anni. Ma per "insistere" si deve averne la forza. E per avere la forza è necessario non solo essere accompagnate, quando si ha una famiglia, da un marito o un compagno che condividano quotidianamente il peso della casa e la responsabilità dei figli, ma anche credere in se stesse e avere quel minimo di fiducia in sé che è la conditio sine qua non di ogni riuscita. Come spiegare altrimenti che solo il 30 per cento dei partecipanti al concorso di ammissione della Normale siano donne?

Com’è possibile, per fare l’esempio del dipartimento di Scienze Sociali dell’Università Paris Descartes, di cui faccio parte anch’io, che alle ultime elezioni il solo candidato alla direzione fosse un uomo nonostante di donne ce ne siano molte? È difficile anche solo avere la voglia di "insistere" quando oltre alle difficoltà oggettive – colleghi ironici, talvolta brutali, che preferiscono appoggiare candidature maschili e non esitano a mettere i bastoni fra le ruote alle colleghe – ci si scontra con la convinzione di non essere all’altezza della situazione, di essere "meno" rispetto agli uomini, anche quando i risultati ottenuti dicono il contrario. Ma questo vuol dire che è tutta l’educazione che, forse, dovrebbe essere rivista. Insegnando ai più giovani che caratteristiche come l’autorevolezza, il rigore, la pazienza o la forza non hanno genere, e che non è vero che un maschio riesce meglio in un ambito rispetto a una femmina o viceversa. Solo così, senza che nessuno si senta ferito nella propria virilità o femminilità, pure gli uomini potranno partecipare attivamente alla vita domestica (anche a costo di mettere talvolta tra parentesi la propria vita professionale) e pure le donne potranno trovare il coraggio di "insistere" (pure a costo di mettere talvolta tra parentesi la propria vita familiare). Ma è una battaglia che si porta avanti tutti insieme.

Altrimenti le donne continueranno a perderla.


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