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Il canone perduto

di Francesco Mattei e Benedetto Vertecchi

16/08/2014
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Non costituisce una novità la distinzione tra il contenuto e la forma dell’educazione. Anzi, si tratta di un tema ricorrente, in particolare negli ultimi due secoli, nei quali hanno assunto una consistenza progressivamente maggiore i sistemi d’istruzione formale. Quel che è nuova è l’asprezza del conflitto che da qualche tempo ha visto schierati sulle opposte sponde chi ritiene che determinati repertori di cultura costituiscano il fondamento necessario dell’educazione e chi pensa che l’intento da perseguire tramite l’attività educativa sia l’acquisizione di competenze di base. Si deve soprattutto al rilievo politico assunto dai modelli elaborati per le ricerche comparative dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse), e alla conformità di tali modelli alle esigenze dello sviluppo economico, l’affermazione di una triade che comprende la capacità di comprensione della lettura, le competenze matematiche e quelle scientifiche. Lo scenario internazionale dell’educazione sembra ormai dominato dalle competizioni triennali per ottenere posizioni elevate nelle graduatorie relative alla triade menzionata. Quel che conta è figurare, costi quel che costi, nelle posizioni di testa definite sulla base delle rilevazioni compiute nell’ambito del Programme for International Student Assessment (Ocse-Pisa), che si sono succedute a cadenza triennale dal 2000. L’ultima rilevazione ha avuto luogo nel 2012 ed è in preparazione quella del 2015 (la sesta). Non staremo qui a riproporre le critiche sempre più frequenti che investono l’impianto delle indagini, l’interpretazione dei risultati e l’uso che ne fanno i governi. Quel che ci interessa rilevare è lo sgretolamento del canone educativo conseguente all’affermazione del modello interpretativo cui fanno riferimento le rilevazioni Pisa. Un canone educativo è costituito dalla cultura, dai valori e dagli atteggiamenti che si sono venuti costituendo attraverso il tempo. Ne deriva che la riflessione sul canone non può prescindere dalla collocazione spaziale delle pratiche educative, dal modificarsi della cultura di riferimento, dalle interazioni che si stabiliscono tra le diverse espressioni della vita sociale. Parlare di “canone” è quindi un modo semplificato per indicare un complesso insieme di problemi. Né si può prescindere dal riconoscere che può essere identificata una pluralità di canoni, conforme ai patrimoni immateriali che si sono accumulati in aree diverse. In questo contesto ci si riferisce al canone educativo europeo, quale si è venuto costituendo dal mondo antico fino ad oggi. È grazie ad esso che riconosciamo una continuità nei profili culturali che va oltre i limiti dei singoli paesi, perché capace di superare i localismi per assumere valenze generali. Il canone è quindi l’insieme di riferimenti che accomuna i profili educativi di quanti, in qualche misura, condividono un sistema di pensiero, modi di argomentazione, strategie di conoscenza, stili di vita, ma anche la letteratura, le arti, la musica, le scienze e, in breve, il patrimonio immateriale che ne segna l’identità. L’educazione è insieme causa ed effetto del canone. Se in Europa, e nei paesi che si richiamano alla tradizione culturale europea, si condivide una cultura che comprende (sono indicati a caso alcuni nomi) Omero e Sant’Agostino, Dante e Newton, Giustiniano e Brunelleschi, Cervantes e Bach, Giotto e Rousseau, ciò si deve agli apprendimenti conseguiti tramite l’istruzione formale, ma anche al convincimento diffuso della necessità che certi apporti fossero compresi in un progetto educativo. Semmai, ci si dovrebbe chiedere quanto tale convincimento fosse diffuso o, se si preferisce, quanta parte della popolazione lo condividesse. La risposta dà ragione dello sviluppo dell’educazione formale, ma anche dei condizionamenti sociali che l’hanno limitato. Si capisce pertanto che alcuni interpreti radicali abbiano considerato il canone espressione di una concezione elitaria dell’educazione: il canone sarebbe stato, infatti, proprio delle minoranze sociali che avevano fruito (meglio se per periodi prolungati) di istruzione formale. Secondo questa linea interpretativa, il canone sarebbe proprio di una concezione educativa propria di strati favoriti delle popolazioni nei paesi che condividono la tradizione culturale europea. L’interpretazione del canone come espressione di una condizione sociale favorita presenta le medesime angustie concettuali d’interpretazioni dell’educazione formale come rivolta prioritariamente agli strati di popolazione che ne hanno fruito per tradizione. È, in altre parole, un altro modo per ripresentare la divisione tra quanti aspirano a buon diritto a raggiungere livelli elevati di conoscenza e coloro che Augusto Monti, giusto un secolo fa (La Voce, 14, IV, 1913), definiva traditori della zappa e della cazzuola. Il fatto è che il rifiuto sociale del canone (o comunque di un’educazione definita riduttivamente umanistica o tradizionale) rischiava di apparire antistorico, e certamente più conservatore, e aveva bisogno di essere giustificato dalla proposta di una sorta di canone diminuito, costituito dai pochi elementi di cultura necessari per non far apparire solo come addestramento l’avviamento alle attività pratiche. Il Novecento ha visto crescere enormemente il numero dei bambini e dei ragazzi coinvolti in percorsi di educazione formale, ma anche l’arroccamento di quote favorite delle popolazioni dei paesi di cultura europea su posizioni caratterizzate dalla riproposta di un’interpretazione statica del canone. In alcuni paesi, tra i quali l’Italia, la divisione tra la quota maggioritaria di popolazione e quella favorita è avvenuta all’interno del medesimo sistema scolastico, mentre altrove (per esempio, in Inghilterra e negli Stati Uniti) si sono costituiti sistemi paralleli ma profondamente divaricati da un punto di vista qualitativo. Il criterio di separazione, nell’uno e nell’altro caso, è stato la maggiore o minore presenza di elementi del canone educativo europeo. Le istituzioni che si dedicano all’educazione dei bambini e dei ragazzi delle classi sociali favorite tendono a conservare (e, talvolta, ad accrescere) il canone, mentre avviene il contrario se le proposte educative riguardano gli strati maggioritari delle popolazioni. In questo panorama contraddittorio si è inserito quello che sembra, in apparenza, un disegno di razionalizzazione educativa, mentre, nella sostanza, rappresenta la rinuncia agli elementi caratterizzanti del canone europeo (va detto, per inciso, che considerazioni analoghe potrebbero essere sviluppate in relazione ad altri canoni: si pensi, per fare un solo esempio, alla rilevanza che alla poesia era riconosciuta nel canone educativo cinese e alle scelte di modernizzazione compiute in anni recenti). L’Ocse ha interpretato la razionalizzazione in termini di utilità a breve termine: è evidente che una simile scelta non ha potuto che tradursi in una progressiva erosione dello spazio culturale del canone educativo, al quale non si collega un’idea di utilità (certamente non di un’utilità a breve termine). In altre parole, l’Ocse ha considerato l’educazione alla pari con altre grandezze economiche, per la sua capacità di concorrere alla produzione di beni e servizi ottenendo risultati apprezzabili nel volgere di pochi anni. Mentre il canone educativo era rivolto prioritariamente a una coltivazione dell’intelligenza che avrebbe fruttificato nel corso della vita, la razionalizzazione che si esprime attraverso le rilevazioni Pisa persegue l’intento di accelerare il conseguimento di risultati utili: sembra del tutto marginale ogni considerazione che investa i tempi lunghi, quelli nei quali si manifesta la solidità di un’educazione ispirata al canone. L’intento utilitario giustifica la triade costituita dalla capacità di comprensione della lettura, dalle competenze matematiche e da quelle scientifiche. Ma si capisce anche il progressivo scivolamento di tale triade da riferimento per l’analisi del funzionamento dei sistemi educativi a criterio didattico. Non si tratta solo di rilevare livelli di abilità, sempre che le soluzioni adottate siano adeguate allo scopo, ma di indirizzare l’attività dei sistemi educativi al conseguimento di risultati comparativamente migliori. È importante notare che l’intento non è l’incremento della cultura diffusa (che, di per sé, costituirebbe un traguardo di medio o lungo termine), ma quello dei punteggi sui quali si fondano le graduatorie: figurare in una posizione più favorevole non vuol dire, infatti, che la cultura che ha reso possibile il risultato sia più apprezzabile. Accade, invece, che si siano affermate vere e proprie deformazioni nelle pratiche educative, come quelle che consistono nell’addestrare bambini e ragazzi a rispondere a quesiti simili a quelli di cui si compongono le prove Pisa. Quel che conta è la prestazione, comunque ottenuta, non l’interiorizzazione di elementi culturali o lo sviluppo di una riflessione approfondita: siamo di fronte ad una capacità di comprensione che prescinde dal testo, a competenze matematiche e scientifiche che vedono la prevalenza di apprendimenti riproduttivi. Si lascia cadere tutto ciò che possa costituire un richiamo a specificità culturali: o, almeno, è ciò che si afferma, perché nella realtà la cultura di riferimento è quella annidata nell’uso della lingua inglese. Occorre una ripresa di consapevolezza sui problemi dell’educazione. Quello che deve esprimersi è un pensiero autonomo, che segua logiche proprie e persegua obiettivi di sviluppo dell’intelligenza e di crescita della cultura nelle diverse età della vita. È ora di abbandonare sterili combinazioni di contenitori vuoti: bisogna ricomporre nell’educazione gli apporti immateriali con le pratiche che ne consentono la condivisione.

da "Educazione"


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