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I testi di scuola ridotti a libri di fiabe

"Sono un’insegnante di sostegno": comincia così l’articolo di Stefania Auci, autrice del bestseller "I leoni di Sicilia" Che qui racconta come si è arrivati al nuovo analfabetismo

16/07/2019
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la Repubblica

di Stefania Auci

Sono un’insegnante di sostegno. Lavoro da cinque anni in una scuola definita "a rischio": scuole di quartieri con gravi situazione di deprivazione economica e sociale e con un elevato numero di alunni in dispersione ed evasione dell’obbligo scolastico. Non solo: provengo da una famiglia di insegnanti. Il mondo della scuola è sempre stato un "affare di famiglia" e conosco bene lo sconforto che avvelena molti colleghi quando entrano in classe. Non riesco quindi a unirmi al coro di quelli che si stupiscono o s’indignano dei disastrosi esiti dei test Invalsi. Chi vive nella scuola lo sa: la situazione è drammatica, e non da ieri. E il risultato dei test è soltanto l’ultima testimonianza, cronologicamente parlando, di questo dramma.

Le continue riforme che si sono succedute dal 2003 a oggi non hanno fatto altro che svuotare di compiti e di significato il ruolo dell’istituzione scolastica. È sempre stato un alternarsi di speranze e delusioni. Per chi è un docente specializzato, la riforma del 2003 aveva anzitutto significato non essere più una "dama di compagnia" degli alunni in difficoltà, ma un’insegnante a tutti gli effetti. E non solo: nel 2010 era stata finalmente riconosciuta la presenza di Bes e Dsa. I Bes sono i "bisogni educativi speciali", cioè rivolti agli alunni che vivono in una condizione di difficoltà a causa di situazioni contingenti (problemi relazionali gravi, provenienza da un Paese extracomunitario, appartenenza a un ambiente familiare disagiato…). Gli alunni con Dsa, invece, sono quelli che soffrono di "disturbi specifici dell’apprendimento", come la dislessia, disgrafia o discalculia, e sono soggetti ad accertamenti da parte di neuropsichiatri, poiché la loro è una condizione clinicamente verificabile. Ovviamente, per questi casi la semplificazione dei testi e l’uso strumenti compensativi e dispensativi è necessaria per il raggiungimento del successo formativo di questi alunni.

Ma la riforma del 2003 aveva obiettivi ben più ambiziosi, che interessavano la maggioranza degli studenti italiani: riorganizzare i cicli scolastici, rimodulare i programmi e dare un nuovo assetto al sistema valutativo basandosi non più sul sapere ma sul saper fare, passando dalla didattica dalle conoscenze a quella delle competenze. Si diceva che era necessario uno svecchiamento, che bisognava modificare il rapporto tra le materie di studio, anche per favorire una formazione votata a un rapido ingresso nel mondo del lavoro. Con le "tre I" (informatica, inglese, impresa: le ricordate, vero?), la scuola italiana avrebbe diffuso un nuovo sapere, dinamico e globalizzato. Che cosa è cambiato da allora, anche in seguito alle altre riforme che si sono succedute, governo dopo governo? Sono diminuite le ore di italiano e di matematica; fin dalla scuola elementare, la storia e la geografia sono state "compresse". Soprattutto, i libri di testo sono stati vistosamente ridotti e impoveriti nel contenuto. E l’elenco potrebbe continuare.

Nei Quaderni del Carcere, Gramsci scriveva che «anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso- muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia». E invece, oggi, la scuola sembra avere come unica modalità di azione quella della semplificazione, dell’eliminazione della fatica.

Prendiamo il caso della mia disciplina curriculare: diritto ed economia. I testi per il biennio raccontano – non spiegano, si badi – il funzionamento degli organi costituzionali senza termini specifici, che invece rappresentano uno strumento indispensabile per capire il funzionamento del nostro Stato. In un colpo solo, si mortifica il linguaggio e s’impoveriscono i contenuti. E non si tratta di un caso isolato: i testi per le scuole superiori sono corredati da illustrazioni tanto carine e colorate ma troppo simili a quelle di un sussidiario degli anni Ottanta; si usano valanghe di mappe concettuali e di riassunti per punti che, in teoria, dovrebbero guidare l’alunno nella concettualizzazione, ma che invece finiscono per essere la sua unica fonte di studio. Se un argomento viene presentato come una favoletta, è difficile che venga voglia di approfondirlo.

La conseguenza è che i ragazzi, oggi, subiscono l’apprendimento e non vi partecipano, come se vedessero un video su Youtube o scorressero i post di Instagram.

Questo drastico livellamento dei testi scolastici verso il basso ha poi un altro – altrettanto doloroso – risvolto: qualsiasi stimolo ad ampliare il bagaglio linguistico viene cancellato. I ragazzi conoscono sempre meno parole e spesso non sanno neppure adoperare bene quelle a loro disposizione. «Si crede di poter progredire solo attraverso i concetti », ha scritto Jean Baudrillard, «ma sono anche le stesse parole che generano o rigenerano le idee». Non è difficile – ed è spaventoso – immaginare quali siano le conseguenze di questo circolo vizioso: si legge poco, si pensa male, si scrive peggio.

Era necessario uno svecchiamento dei programmi, certo; ma una cosa è aggiornare i testi e usare il digitale nei processi di apprendimento, un’altra è spiegare la salita di Ottaviano Augusto al soglio imperiale con slide di tre righe ciascuna su una lavagna multimediale. Un click e via. Perché non è importante? Perché ci sono altre cose che bisogna sapere? Ogni risposta è un colpo all’idea stessa di scuola come luogo fisico e mentale, in cui gli alunni diventano persone, adulti, cittadini. I ragazzi non si meritano questo. Non sono stupidi, né superficiali. Semplicemente non sanno come guardare la realtà in maniera critica. E siamo stati noi adulti ad averli privati della voglia di porre quelle domande scomode che noi, un tempo, abbiamo fatto. Abbiamo lasciato che ciò accadesse. È questa, oggi, la nostra colpa più grande. E non c’è bisogno di un test Invalsi per capirlo.


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