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I sei luoghi comuni che fanno male all'Università

DI fronte all’ultima vicenda di concorsi truccati, ci sono state sei reazioni tipiche. Tutte sono inadeguate e qualcuna è addirittura controproducente.

02/10/2017
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la Repubblica

ROBERTO PEROTTI

DI fronte all’ultima vicenda di concorsi truccati, ci sono state sei reazioni tipiche. Tutte sono inadeguate e qualcuna è addirittura controproducente.

1. “Il nucleo dell’università italiana è sano”. La triste realtà è che non lo sappiamo. Certo non è un buon indizio che quasi ogni docente sia venuto a conoscenza, direttamente o indirettamente, di concorsi truccati come quello sotto indagine: un ricercatore che viene invitato a non presentarsi perché i posti disponibili sono già spartiti. Ma probabilmente ancora più numerosi sono i casi di ricercatori che spontaneamente rinunciano a presentarsi perché i posti sono già assegnati e non vale nemmeno la pena di compilare la domanda. Poi c’è il caso più umiliante di tutti, il ricercatore a cui viene comunicato che non ha speranze, ma che viene costretto a fare domanda solo per far apparire il concorso come regolare. La fantasia delle camarille universitarie va al di là dell’immaginazione dei comuni mortali.

2. “Abbiamo fiducia nella magistratura”. Che io sappia, nella storia della Repubblica c’è una sola sentenza definitiva di condanna per episodi del genere, nel 1988, quando tra le altre cose un docente, benché non commissario, scrisse il giudizio della commissione sul proprio figlio. Il motivo è semplice: il giudizio sui candidati è soggettivo, non si può condannare un commissario per avere preferito Tizio a Caio, così come non è penalmente perseguibile un allenatore che preferisce un giocatore di serie C a Messi.

Ma ancora più istruttivo è seguire cosa accadde dopo quell’unica condanna. I commissari condannati rimasero al loro posto, e col tempo andarono tranquillamente in pensione. Anche i quattordici vincitori dei concorsi annullati rimasero al loro posto, e alcuni più tardi fecero parte di commissioni che promossero le nuove generazioni delle famiglie coinvolte.

3. “Cambiamo i concorsi”. Fino al 1999 i concorsi erano nazionali, come ora. Ma poiché si prestavano a scambi di favori, si passò ai concorsi locali banditi dalle singole università. Non cambiò niente. Così nel 2010 si tornò all’abilitazione nazionale, e ancora non cambiò niente. Con l’abilitazione nazionale io voto per il tuo candidato, tu voti per il mio. Con i concorsi locali oggi io voto per il tuo candidato nel tuo concorso, domani tu voti per il mio candidato nel mio concorso. Dove è la differenza? Eppure ogni dieci anni l’università italiana è vittima di un attacco di amnesia collettiva ed entra in fibrillazione per riformare i concorsi, illudendosi che cambi qualcosa.

4. “Ci vuole un cambiamento di mentalità”. Negli ultimi decenni non si contano gli appelli e i manifesti dei docenti per un approccio più responsabile ai concorsi. Dieci anni fa scoppiò la moda dei codici etici, pieni di magniloquenti enunciazioni di principio. Tutta aria fritta. La maggioranza dei docenti coinvolti in manfrine non si sente affatto disonesta: la tipica giustificazione è che «altrimenti persone meno meritevoli (quelle ovviamente dell’altra cordata) occuperebbero il posto del mio protetto». Ed anche tanti professori onesti estranei alle manfrine stanno zitti, non per viltà, ma per non danneggiare i candidati competenti presi nel tiro incrociato dei baroni.

5. “Ci vogliono regole più stringenti”. Dal 1997 al 2014 la più grande università d’Europa, la Sapienza di Roma, è stata governata da tre rettori consecutivi che avevano uno o più figli docenti nella stessa università. Alcune università hanno ora proibito l’assunzione di familiari nello stesso dipartimento. Soluzione: si assumono vicendevolmente i familiari nelle università satelliti o limitrofe. Tutto formalmente regolare. Ecco perché l’ennesimo piano anticorruzione cui sta lavorando il ministero servirà solo ad aumentare la burocrazia e ad intasare ulteriormente qualche Tar e qualche procura.

6. “La colpa è della scarsità di risorse”. È esattamente la logica perversa di chi sostiene che bisogna inondare di opere pubbliche la Sicilia per sconfiggere la mafia. Ma se la mafia uccide per un appalto da un milione di euro, cosa farà per un appalto da cento milioni di euro?

Quasi nessuno vuole sentire parlare dell’unica soluzione possibile: assegnare una parte sostanziale (e non infinitesima come ora) dei fondi secondo la qualità della ricerca e dell’insegnamento di ogni dipartimento, in base a giudizi di esperti internazionali. In questo sistema saranno i colleghi stessi del barone che gli impediranno di tramare per assumere un candidato inadeguato, perché alla lunga ciò si rifletterà sulle risorse disponibili a tutti i membri di quel dipartimento. È un meccanismo che può benissimo essere applicato anche alle università pubbliche, come mostra l’esempio inglese. Ma è una soluzione che quasi nessuno vuole, perché obbliga, questa sì, a cambiare mentalità e modo di lavorare.

roberto. perotti@ unibocconi. it


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